Una mobilità che non risolve nessuno dei problemi della PA

Luigi Oliveri 27/06/14
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La mobilità volontaria senza il nulla osta dell’amministrazione di appartenenza è un’evidente insensatezza.

Su La Repubblica del 13 giugno 2014, il professor Tito Boeri evidenzia che la mobilità dovrebbe servire a riequilibrare la distribuzione del personale pubblico. In Italia, infatti, non è per nulla vero, contrariamente a quanto afferma la vulgata, che vi siano troppi dipendenti pubblici. Ve ne sono circa 2 milioni in meno rispetto a Francia e Gran Bretagna e poco più di un milione in meno rispetto alla Germania ed il costo è poco inferiore alla media Ue.

E’, invece, vero che vi sia una pessima distribuzione tra territori e tra amministrazioni. Con la conseguenza che in particolare al Sud, che ha una popolazione inferiore al Nord, vi sia una maggiore concentrazione di dipendenti pubblici; oppure, la paradossale situazione degli ispettorati del lavoro o dei centri per l’impiego, uffici nevralgici per le politiche del lavoro, totalmente sotto dimensionati. Basti pensare che in Italia presso i centri per l’impiego operano circa 7.600 persone, contro i 74.000 della Germania, Paese con un tasso di disoccupazione di meno della metà di quello italiano.

Una riforma della pubblica amministrazione tendente ad incrementarne davvero, e non solo a parole, l’efficienza, dovrebbe affrontare esattamente questo tipo di problemi. Immaginare di agire sulla produttività lasciando sovrabbondanza di lavoratori in determinate zone del territorio, oppure di competere con l’efficienza dei servizi di altri Paesi con un decimo della forza lavoro è, evidentemente, assurdo. Queste storture andrebbero subito corrette.

La riforma presentata dal Governo, tuttavia, è ben lungi dall’essere capace di affrontare e risolvere questi problemi.

Si prevede, infatti, una riforma della mobilità volontaria che, anzi, sortirà effetti del tutto contrari o, comunque, non indirizzabili alla soluzione delle questioni indicate prima.

L’idea è facilitare la mobilità eliminando il “nulla osta” dell’amministrazione di appartenenza, che, se non concesso, impedisce il trasferimento di un dipendente da un ente all’altro.

Ora, è perfettamente comprensibile che la questione non è legata al nulla osta. O, meglio, appare incredibile sottrarre al datore di lavoro il potere di gestire il rapporto di lavoro col proprio dipendente, rendendo il primo succubo della decisione del secondo di trasferirsi. Nessuna programmazione della gestione delle risorse umane sarebbe più possibile. Le amministrazioni potrebbero iniziare a rubarsi i dipendenti, senza che nessuna più potrebbe contare su un assetto stabile della propria organizzazione e su un ritorno degli investimenti effettuati in formazione ed aggiornamento.

Si dirà che nel privato i dipendenti hanno piena libertà di muoversi. Vero. Ma, per andare da un datore all’altro si dimettono. Nella pubblica amministrazione si accede solo per concorso e, dunque, dimettersi non è possibile. Ma, non si può porre rimedio a questa configurazione particolare del reclutamento esautorando il datore di lavoro dal potere/dovere di acconsentire ad un trasferimento di un proprio dipendente, soprattutto in presenza delle enormi difficoltà poste dalla normativa vigente ad assumere nuovo personale.

Un legislatore accorto, allora, non dovrebbe generalizzare l’eliminazione del nulla osta a qualsiasi procedura di mobilità. Sarebbe perfettamente possibile conciliare i trasferimenti dei dipendenti con esigenze di razionalizzazione della finanza pubblica.

Pochi esempi. Immaginiamo che la riforma introduca, a proposito della valutazione e dell’assegnazione dei premi di produttività, un principio di semplificazione banalissimo: se l’ente è in dissesto o predissesto, se vìola il patto di stabilità, se chiude il bilancio in passivo, se non rispetta una media nazionale o territoriale del rapporto dipendenti/popolazione o non sia in linea con altri indicatori similari, semplicemente nessun premio di produttività può essere concesso finchè l’ente non risani per almeno due anni consecutivi la situazione finanziaria.

In questo caso, allora, il dipendente che trovi la strada per andare in mobilità presso un altro ente, con condizioni finanziarie tali da potersi permettere di erogare premi di risultato ed incentivi, dovrebbe poter contare sull’assenza del nulla osta e l’amministrazione di appartenenza abbozzare al suo trasferimento. Pensiamo all’esempio del comune di Roma: un’impostazione di tal genere della mobilità potrebbe incentivare i dipendenti ad andare presso altre amministrazioni, il che potrebbe anche contribuire ad alleggerire la situazione finanziaria del comune stesso.

Un’altra ipotesi selettiva al ricorrere della quale la mobilità potrebbe essere automaticamente conseguenza dell’accordo tra lavoratore ed amministrazione di destinazione, senza nulla osta dell’amministrazione di provenienza, potrebbe riguardare l’afflusso verso amministrazioni che siano collocate in zone del territorio con un’incidenza del rapporto personale/popolazione e spesa di personale/spese correnti inferiori alla media; o, ancora, l’afflusso verso amministrazioni che denuncino carenze di personale connesse ad un’elevata scopertura delle dotazioni organiche (almeno il 20%) o evidentissimi scostamenti rispetto a comparabili realtà europee.

Solo eliminando il nulla osta in modo selettivo si riesce a far sì che la mobilità volontaria risulti uno strumento di vera razionalizzazione ed efficienza dell’amministrazione.

Invece, l’eliminazione indiscriminata del nulla osta potrebbe sortire effetti paradossali ed opposti rispetto a quelli necessari, come, magari, il ritorno da Nord a Sud dei tantissimi dipendenti pubblici impiegati nelle amministrazioni del settentrione, ma tentati dal ritornare.

Né la mobilità “obbligatoria” potrebbe sortire i necessari effetti di riequilibrio della distribuzione dei dipendenti pubblici con ristretti limiti di distanza dei trasferimenti o senza una ridefinizione delle retribuzioni che tenga conto del diverso costo della vita che contraddistingue le zone del territorio nazionale.

La riforma della mobilità così come immaginata dal Governo, purtroppo, appare ancora una volta caratterizzata da quegli eccessi di demagogia, fretta, improvvisazione, confusione che hanno sin qui intriso ogni legge di riforma della pubblica amministrazione, come il mostro della riforma delle province.

Ancora una volta si offre all’opinione pubblica e alla stampa generalista un “trofeo” per far apparire decisionista e pronta l’azione del governo, nonostante le decisioni operative siano caotiche e assolutamente non in grado di ottenere gli obiettivi enunciati.

 

Luigi Oliveri

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