Questione province: il TAR Liguria apre un nuovo fronte e il tira-e-molla continua

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Sull’affaire province è stato scritto e detto di tutto e di più: nel bene e nel male, come è normale che accada, soprattutto in uno stato dove sembra che di tutto e di più si debba scrivere o dire per prescrizione medica.

Nulla di più e nulla di meno si poteva attendere dopo aver letto l’art. 1, commi 325 e 341, della legge 27.12.2013, n. 147: “le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 115, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, relative al commissariamento delle amministrazioni provinciali si applicano ai casi di scadenza naturale del mandato nonché di cessazione anticipata degli organi provinciali che intervengono in una data compresa tra il 1º gennaio e il 30 giugno 2014” e “le gestioni commissariali di cui all’articolo 2, comma 1, della legge 15 ottobre 2013, n. 119, nonché quelle disposte in applicazione dell’articolo 1, comma 115, terzo periodo, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, cessano il 30 giugno 2014”.

L’art. 1, comma 115, della legge 24.12.2012, n. 228 è norma innocente, almeno nella logica perseguita dai fautori delle azioni di riordino delle province. Peccato che l’innocenza sia svanita dopo la dura lezione propinata dalla sentenza della Corte costituzionale 19.7.2013, n. 220, la quale ha “ha dichiarato l’illegittimità costituzionale: – dell’art. 23, commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20 bis del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214; – degli artt. 17 e 18 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, per violazione dell’art. 77 Cost., in relazione agli artt. 117, comma 2, lett. p), e 133, comma 1, Cost., in quanto il decreto-legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate nel presente giudizio”.

È noto che la risposta del legislatore fu l’art. 2 della legge 15.10.2013, n. 119, norma sicuramente priva di innocenza, e forse,a dire poco, un po’ troppo ardita ed ammiccante: “1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 1, comma 115, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, sono fatti salvi i provvedimenti di scioglimento degli organi e di nomina dei commissari straordinari delle amministrazioni provinciali, adottati, in applicazione dell’articolo 23, comma 20, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, ai sensi dell’articolo 141 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, nonché gli atti e i provvedimenti adottati, alla data di entrata in vigore della presente legge, dai medesimi commissari straordinari”. La quale, a ben vedere, ha un vizio di origine: tenta l’operazione negromantica di resuscitare quel che la Corte costituzionale ha vanificato con effetti ex tunc: ossia proprio gli scioglimenti dei consiglî provinciali e la pedissequa nomina dei commissarî straordinari per la gestione degli enti sciolti. Lo si evince dal pudore del lessico: qui, non potendo fare riferimento alle usuali categorie del diritto costituzionale e del diritto amministrativo, il legislatore si preoccupa di “fare salvi” gli effetti prodotti da una normativa che è divenutatamquam non esset, sia pure con qualche temperamento. Il che, a ben vedere, ha il sapore del miracolo tentato.

Il resto è storia nota. Una storia che però finge di non vedere quel che è invece evidente: la più gran parte di essa poggia, nel bene o nel male, su un terreno fragile. Il perché è ovvio: il suo presupposto è venuto meno per effetto di una chiara ed indiscutibile pronuncia del giudice delle leggi, il quale ha colpito la base ordinamentale dell’interoaffaire.

Tutto ciò non è sfuggito al TAR Liguria, il quale, con la sentenza 20.2.2014, n. 295 della sua sezione II ha liquidato l’intera faccenda nel modo più onorevole: “in uno dei motivi d’impugnazione il ricorrente ha dedotto l’illegittimità dei provvedimenti impugnati sul rilievo della dubbia costituzionalità dell’art. 23, comma 20, d.l. cit., precisando che la norma, al momento della notifica del gravame, era già all’esame della Corte costituzionale. Sicché la sopravvenuta declaratoria d’incostituzionalità della norma, scaturente dalla sentenza (Corte cost. n. 220 del 2013), in forza dell’effetto (parzialmente) retroattivo della pronuncia e della teorica dei “rapporti non esauriti” di cui al combinato disposto di cui agli artt. 136 Cost. e 30, comma 3, legge n. 87 del 1953, spiega senz’altro effetto in questo giudizio. Ma non nel senso, auspicato dall’amministrazione resistente, d’improcedibilità del ricorso. L’inapplicabilità della norma, conseguente alla declaratoria d’incostituzionalità, di cui è parola all’art. 30, comma 3, legge 87/1953, depone invece nel senso che è fondato il ricorso. Infatti, relativamente alla vicenda in esame, agli atti impugnati ed al procedimento da cui sono scaturiti non trova applicazione l’art. 23, comma 20, d.l. cit., che è – va sottolineato – la fonte normativa di essi. La sua sopravvenuta inidoneità a spiegare effetti, e quindi a fondare la legittimità degli atti impugnati, corrisponde toto corde al motivo di censura dedotto dal ricorrente. La conseguenza più rilevante della fondatezza del motivo d’impugnazione è che, in conformità al principio di effettività della tutela giurisdizionale che caratterizza oramai il processo amministrativo, gli atti impugnati sono invalidi e l’amministrazione – anziché limitarsi a disapplicare (per il futuro) la disposizione ritenuta incostituzionale – deve rimuoverne gli effetti prodotti e rinnovarli secondo le norme vigenti”.

E siccome gli atti impugnati erano “il decreto di scioglimento del Consiglio provinciale e il decreto del Prefetto di Genova di nomina del commissario straordinario”, la conseguenza dell’accoglimento del ricorso non poteva che essere, come in effetti è stato, l’annullamento degli atti impugnati e la loro caducazione ex tunc, come usualmente avviene nei giudizi radicati innanzi alla giurisdizione generale di legittimità.

Il resto ha da venire. Certo è che il cielo sotto il quale sta procedendo l’esame della questione province è destinato a rabbuiarsi. Come al solito, quando l’analisi e la ponderazione cedono il passo alla fretta, il cui frutto è inevitabilmente il pasticcio.

Riccardo Nobile

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