Federalismo e responsabilità: il nodo della specialità finanziaria

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L’allarme, al momento, sembra parzialmente rientrato: la Sicilia non rischia un default imminente. Un comunicato della Presidenza del Consiglio informa che il problema è “solo” di temporanea carenza di liquidità.

Ma le gravi difficoltà della finanza siciliana restano tutte: la Corte dei conti regionale ha certificato, fra l’altro, «una situazione di notevole, preoccupante deterioramento: tutti o quasi i saldi fondamentali di bilancio presentano valori negativi», più avanti sottolineando la «difficile sostenibilità dei conti pubblici regionali».

Quindi resta anche il problema del rapporto tra autonomia e responsabilità finanziaria, tra indipendenza e solidarietà. E’ possibile che l’autonomia finanziaria si traduca in una deroga delle regole di buona gestione, e che gli enormi deficit e debiti accumulati da alcuni enti debbano poi essere colmati con interventi di salvataggio a carico dell’intera comunità nazionale? È giusto che le amministrazioni virtuose debbano sottrarre risorse alla soddisfazione dei bisogni dei propri cittadini per destinarli al salvataggio di enti inefficienti? Cosa si può fare per prevenire o riparare per tempo simili situazioni, in modo che la soluzione non dipenda soltanto dalla buona volontà degli enti e degli amministratori spreconi?

Al di là delle ipotesi di commissariamento delle regioni inefficienti (di complessa praticabilità e comunque in certa misura tardive), la soluzione unanimemente indicata in questi giorni è quella di limitare l’autonomia finanziaria. Riducendo gli spazi di libertà dei livelli decentrati di governo si riducono i margini per l’assunzione di decisioni di spesa contrarie alle regole di sana gestione.

La misura della indipendenza finanziaria dei livelli intermedi di governo è un problema che ricorre in tutti i sistemi multilivello. Bisogna evitare che gli eccessi di spesa o di indebitamento di qualche ente possano pregiudicare l’equilibrio dei conti dell’intero sistema di finanza pubblica e che debbano essere colmati con interventi di salvataggio che chiedano sacrifici all’intera comunità nazionale. Nel nostro caso, bisogna soprattutto rimediare ad un equivoco radicato nella tradizione autonomistica italiana, che ha portato ad intendere e praticare l’autonomia come scudo contro i sacrifici e zona franca rispetto alle regole di buona gestione.

Ma annullando o comprimendo eccessivamente l’autonomia di regioni ed enti locali si rinnegherebbe il federalismo fiscale, e sarebbe necessario ricostruire un sistema di regole tributarie e contabili calibrato su un ordinamento centralizzato. Un’opera lunga e complessa, che sostanzialmente vanificherebbe le innovazioni federalistiche introdotte in questi ultimi undici anni.

Si potrebbe allora limitare, per adesso, la soluzione ai casi più emblematici ed eclatanti di sprechi ed inefficienze: le regioni a statuto speciale.

Ma, a leggere le recenti deliberazioni della Corte dei conti e a dar credito alle analisi delle agenzie di rating che hanno declassato diverse regioni ed enti locali italiani il problema non è limitato alla specialità. Sono sempre di più i governi locali che, grazie a veri e propri artifici contabili, certificano il rispetto del patto di stabilità anche se sono di fatto sull’orlo del dissesto.

Ed a guardare attentamente la situazione ci si accorge che sul versante della spesa la situazione delle regioni ad autonomia differenziata non è poi così speciale. La Corte costituzionale ha chiarito da tempo che anche loro devono concorrere come tutti gli altri al risanamento del sistema di finanza pubblica, e devono sopportare tagli ai trasferimenti statali e aumenti delle quota di spesa a carico dei propri bilanci.

L’unica forma di specialità è costituita dalla possibilità di ciascuna di queste regioni di negoziare individualmente con lo Stato l’applicazione dei vincoli alla spesa e delle regole del patto di stabilità. Non è poco, in questo modo le autonomie speciali possono conseguire notevoli vantaggi rispetto alle altre regioni. Ma è anche vero che queste deroghe devono essere concesse o comunque approvate dallo Stato, che deve (dovrebbe) valutarne la coerenza con il rispetto delle regole di sana gestione finanziaria e con l’equilibrio generale dell’intero sistema di finanza pubblica. E se la regione chiede troppo e non si raggiunge l’accordo si applicano anche alle autonomie speciali le regole comuni, uguali a tutte le altre regioni. Ed allora se davvero le regioni speciali hanno ottenuto benefici eccessivi, o addirittura veri e propri privilegi, c’è da chiedersi: perché sono stati loro concessi?

Inoltre la maggior parte dei bilanci delle regioni speciali è sottoposto non soltanto al controllo di gestione attraverso il quale la Corte dei conti accerta «il rispetto degli equilibri di bilancio”, ma anche ad una forma di controllo non prevista per le altre regioni: il giudizio di parificazione, che ha lo scopo di monitorare il rispetto dei principi del pareggio, dell’equilibrio e della copertura finanziaria delle leggi di spesa.

E bisogna anche considerare che le spese folli della regione Sicilia documentate in questi giorni da tutti gli organi di informazione ( dalla esorbitante spesa di personale alla moltiplicazione dei costi delle obbligazioni da rimborsare negli esercizi futuri) derivano tutte, o per lo più, da leggi sottoposte al controllo del Commissario dello Stato, organo di controllo sulla legittimità della legislazione regionale. Non a caso, infatti, il Commissario ha recentemente impugnato alcune disposizioni regionali che prevedevano l’assunzione di un mutuo da oltre 500 milioni per finanziare la spesa relativa al personale precario. Com’è possibile, allora, che le leggi che consentivano spese a dir poco ingiustificate siano in questi anni passate indenni al controllo? A sentire l’assessore regionale all’economia, infatti, provvedimenti del tutto analoghi a quelli adesso impugnati, negli anni passati non sono invece stati oggetto di alcuna censura né osservazione.

Se tutto questo è vero, allora il problema non è solo l’esistenza di regole diverse dalle altre regioni, quanto piuttosto l’applicazione di queste regole ed il funzionamento dei (numerosi) controlli posti a salvaguardia della legalità ed efficienza finanziaria dell’attività delle regioni speciali.

Ciò non significa evidentemente che non si possa o debba intervenire con modifiche, anche costituzionali, che portino ad una certa uniformazione (o quantomeno armonizzazione) dei sistemi finanziari delle regioni speciali a quelle delle altre regioni, ma solo che la soluzione di problemi così specifici ed urgenti non può essere affidata soltanto a grandi riforme incerte nei tempi e nella realizzazione, ma richiede interventi mirati e soprattutto controlli adeguati sul funzionamento del sistema attuale.

Dario Immordino

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