Salute, ambiente e lavoro: non basta fare leggi di carta!

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L’apparato legislativo italiano è tra i più farraginosi e complessi dei sistemi normativi moderni. Lo è diventato ancor di più da quando – ormai parecchio tempo – ha dovuto obbligatoriamente adeguarsi alle Direttive Europee ed ai Trattati di diritto internazionale.

Ottima cosa se le leggi promulgate si inserissero in un contesto organizzativo caratterizzato da una rete di efficienti strumenti esecutivi, di validi mezzi di controllo e vigilanza, di certezza della sanzione in caso di loro elusione o violazione.

Clamoroso disastro se – cronaca di tutti i giorni docet – la lettera della legge finisce per rimanere fine a sé stessa, scollegata dal necessario apparato di sorveglianza e prevenzione, relegata a raffinata tappezzeria normativa.

Soprattutto la ricca legislazione specialistica penale – ben lontana dal tradizionale quadretto sanzionatorio affidato al poliziotto che arresta il rapinatore in flagrante e lo porta dinanzi al giudice che lo condanna – presuppone uno Stato in grado di sapere dove, come, quando e perché vengono commessi i cd. reati del XX secolo, primi fra questi le violazioni di legge nelle fabbriche a danno dei lavoratori o gli illeciti contro l’ambiente e la salute pubblica. E presuppone, innanzitutto, un potenziamento di organismi amministrativi e di risorse umane ad alta specializzazione, specificamente deputati a gestire questa precipua e difficile fetta di realtà criminologica.

Il guaio è che il potenziamento di cui si parla è proprio quello che – oggi più che mai – collide a tutto spiano con la sventurata politica dei “tagli” certosini. Tagli di servizi, tagli di uffici, tagli di personale, tagli di costi, tagli di spesa pubblica: un’Italia stretta tra le lame di un gigantesco paio di forbici pronte a tagliare tutto ciò che non sia rozzamente evidente o elementarmente necessario. Poco importa se il taglio di un futuro giuridico migliore pregiudichi, alla fine, la stessa sopravvivenza fisica dei nostri figli …..

In compenso, ci si lava la coscienza continuando a legiferare ed a sperare che nessuno si accorga che la legge non vale un fico secco se rimane arenata nelle secche delle gazzette ufficiali.

L’ultima normativa formalmente in difesa dell’ambiente è entrata in vigore nel mese di agosto, tra una manovra bis ed una rettifica ter, tra un buco finanziario in attesa di un rammendo e un’eco di urla sconfinate di gente avvilita dai problemi della crisi.

Parlo del Decreto Legislativo 7 luglio 2011 n. 121, avente ad oggetto “Attuazione della direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente, nonché della direttiva 2009/123/CE che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni”.

Un provvedimento normativo che – in almeno in linea teorica – sembrerebbe rientrare nei canoni della “normalità” giuridica e finalmente rappresentare una provvidenziale tregua dai malevoli rifacimenti alla Pitagora dei riti processuali e del codice penale, una insperata pausa tra una legge ad personam ed un dibattimento di alto rango a luci rosse, una felice distrazione giuridica da pericolose triturazioni costituzionalistiche.

Ma, a fronte della lettera della norma – ufficialmente volta a tutelare uno dei più sacri ed inviolabili diritti dell’uomo, e cioè la salvaguardia dell’ambiente in cui vive (aria, terra, acqua, flora e fauna, tutti compresi) anche attraverso l’uso dello strumento sanzionatorio penale – quanto di concreto, reale e sostanziale, possiamo sperare di ottenere da questa novella legislativa agostana?

Con il D.lgs. 121/2011 sono state introdotte alcune importanti novità: due modifiche per integrazione al codice penale, a tutela della fauna (e cioè l’introduzione degli artt.727 bis e 733 bis che sanzionano l’uccisione, la cattura e la detenzione di animali appartenenti a specie selvatica protetta, nonché la distruzione o il deterioramento di habitat all’interno di siti protetti), e alcune correzioni ai Decreti Legislativi 3 aprile 2006, n. 152 (cd. Codice Ambiente) e 3 dicembre 2010, n. 205 in materia di rifiuti e regolamentazione SISTRI. Dimentichiamo per un attimo che, tanto forte e sentita è stata la cura del nostro legislatore nell’emanare questo Decreto – dopo mesi e mesi di studio, preparazione, riletture, passaggi di bozze di tutti i tipi – da essere strepitosamente incorso in uno strafalcione tecnico degno dello smemorato di Collegno: v. l’art. 733 bis cod. pen., richiamato all’art. 2, misteriosamente diventato art. 733 bis cod. civ. !

La novità di maggiore rilievo sistematico dovrebbe essere l’estensione ai “reati ambientali” del D.Lgs. 8 giugno 2001 n. 231 sulla responsabilità delle imprese per fatti illeciti commessi nel loro ambito ed interesse.

Per farla breve, se il Decreto Legislativo 121 venisse realmente e bene applicato: gli enti privati o a parziale partecipazione pubblica, le aziende, le multinazionali, le società in genere, dovrebbero dare dimostrazione di avere adottato al loro interno un modello di organizzazione ed un organismo di vigilanza atti ad evitare la commissione di tutta una serie di reati di grave pericolo ed attentato all’ambiente, alla salute pubblica e alla salubrità sui luoghi di lavoro (v. gestione illecita dei rifiuti e del loro traffico clandestino, mancata bonifica di siti inquinanti, arbitraria apertura di scarichi industriali pericolosi, inquinamento provocato dalle navi, fraudolento impiego di sostanze nocive per l’atmosfera, etc. etc.).

E se lo stesso Decreto venisse realmente e bene applicato dovrebbero scattare controlli a tappeto, misure sanzionatrici severissime (sanzioni pecuniarie milionarie, interdizione o sospensione dell’attività, revoca dei finanziamenti, divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, divieto di pubblicizzare beni e servizi, esclusione da agevolazioni e contributi, etc.) e processi penali in cui l’impresa viene chiamata a rispondere in prima persona, esattamente come se fosse una persona fisica.

Questo dovrebbe succedere!

Ma il D.Lgs. 231 è stato promulgato nel 2001, ha avuto nel tempo decine e decine di rivisitazioni aggiuntive che hanno visto estenderne il raggio di azione ad un numero sempre maggiore di fattispecie delittuose, e … ha portato a risultati a dir poco fallimentari: controlli amministrativi una tantum e solo “per sbaglio”, pochissimi processi penali, prevalenza assoluta di un atteggiamento di indifferenza da parte delle imprese, non a torto convinte della sostanziale superfluità di un adeguamento di legge alla 231.

E del resto, perché mai ci dovrebbe preoccupare quando – a proposito di tagli – lo stesso ex ministro della Giustizia Alfano si era dilettato a lanciare la proposta di abrogazione della legge, o quantomeno di una sua bella “ridimensionata” come lui solo sa fare con tanta squisita abilità tecnica ?

Se ad oggi siamo salvi e la 231 continua a resistere è solo perché rimane l’obbligo di adeguarci alle Direttive Europee, che è esattamente il motivo per cui è stato emanato il neo Decreto n. 121 sull’ambiente.

Ma domani?

Di morti sul luogo di lavoro per problemi legati all’ambiente, primo in testa il famigerato amianto, la Corte di cassazione (l’ultima sentenza della IV Sezione Penale è la n. 33734 del 12 settembre 2011) ne continua a contare a piene mani.

Condannati – medesimo cliché sanzionatorio di vecchio stampo individualistico – i soliti dirigenti e “capri espiatori” di passaggio.

…. il che vuole elegantemente dire che la gente continua a lasciarci la pelle nonostante le nostre floride ed aggiornate leggi di carta pregiata…

Franzina Bilardo

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