Una strage dopo l’altra: il rischio di assuefazione all’odio

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Londra, San Pietroburgo, la Siria e ora ci si mette anche la Corea del Nord. Una striscia di guerra, esplosioni, pallottole e disperazione si propaga da un lato all’altro del globo, mentre le notizie si avvicendano rapidamente sui mezzi di comunicazione.

La deriva degli ultimi tempi sembra davvero aver chiuso per sempre l’epoca di – forse solo immaginata – concordia internazionale, quella in cui la stragrande maggioranza delle nazioni pareva operare per la pace e la crescita delle popolazioni. Quella in cui, pur nelle frequenti difficoltà, con il ricordo ancora vivido di due sciagure come le Guerre mondiali, le condizioni di vita erano in continuo miglioramento, l’incremento demografico inarrestabile e il quadro internazionale resisteva pur nei frequenti scossoni.

Intendiamoci, le guerre non sono mai finite né, purtroppo, mai finiranno.

Ma dalla creazione dell’Onu in avanti, la tendenza era quella di un miglioramento progressivo dello scenario internazionale. Di solito, allo scoppio di conflitti seguivano ampi dispiegamenti in cui le maggiori potenze cercavano di riportare ordine e stabilità. Accadde in sud est asiatico, in maniera più pesante in Vietnam, e via via con le rivolte in America Latina. Ma tutti questi Paesi, una volta affrontata la prova degli scontri e talvolta della dittatura, parevano indirizzati verso un adeguamento inevitabile alle pratiche democratiche, innalzando così le libertà sia economiche che di rappresentanza politica della popolazione.

Poi, l’11 settembre 2001, tutto questo è finito. Dopo i raid in Afghanistan e Iraq ci eravamo illusi che potesse trattarsi dell’ulteriore parentesi, che una volta destituiti i tiranni responsabili del più incredibile attentato della storia, saremmo tornati allo fase precedente, quello di ottimismo e di crescita “necessaria” che guidarono gli Stati e soprattutto i mercati fino alla conclusione del XX secolo.

E invece, niente di tutto ciò. Le sacche di odio hanno cominciato a ritornare, portando l’Europa e non solo, in una spirale di violenza, con attentati in serie come non si vedevano dai tempi dei separatisti e, comunque, in un raggio così diffuso e talvolta così letale da riportare alla memoria la fragilità del primo Novecento.

Negli ultimi giorni, abbiamo assistito a tre sciagure molto diverse tra loro, eppure dettate dalla identica matrice di odio e di atrocità che ormai sembra un dato acquisito all’interno delle società cosiddette evolute.

L’attacco di Londra ai cancelli di Westminster è l’esempio più fulgido di questa era di terrore improvvisato, in cui menti deboli di nativi europei, spesso senza prospettive e dunque permeabili alla propaganda islamista, cercano azioni dimostrative al fine di uccidere qualche innocente, e soprattutto di ottenere visibilità.

Allo stesso modo, la bomba esplosa nella metro di San Pietroburgo, proprio nel momento in cui l’opposizione russa a Putin stava rialzando la testa, traccia nuovamente un confine netto tra “noi” e “loro”, tra chi accetta i principi di una vivere in sicurezza e chi invece non ha altri argomenti che distruggere l’esistenza di ignari passanti e seminare il panico a tutte le latitudini. Alimentando, indirettamente, la rivalsa su altri fronti, proprio come la Siria.

Veniamo così allo scempio di Idlib: secondo la versione ufficiale, le forze di Assad sostenute dai russi avrebbero colpito un arsenale chimico in mano ai ribelli, scatenando la fuoriuscita di sostanze tossiche che ha causato la morte di decine di persone tra cui molti bambini. Le foto che stanno girando nelle ultime ore su siti web e giornali, qualche anno fa avrebbero generato reazioni sdegnate in ogni angolo del globo. Corpi inermi di bambini vengono trasportati verso gli ospedali, o cadaveri accatastati in immagini che riportano alla memoria massarci epocali come la Shoah. Eppure, noi osservatori, bombardati come siamo di notizie sempre più sanguinarie reagiamo provando, sì, qualche secondo di compassione, magari riflettiamo sulla situazione politica internazionale, ma poi terribilmente passiamo oltre, scorrendo con il pollice il feed di notizie del nostro profilo Facebook o Twitter.

Di fronte al montare delle violenze, all’incedere dell’intolleranza, il peccato più grave che possiamo compiere è quello di rimanere distaccati o indifferenti. Purtroppo, quando ciò avviene in maniera inconscia, come pare stia succedendo, è ancora più drammatico poiché significa che certi comportamenti sono ormai instillati nel nostro essere, parte del nostro DNA. Forse abbiamo solo perso le speranze, o magari stiamo solo cercando di ripararci mentre passa la tempesta.

Decenni passano, e il domani ci ha riservato un mondo assai meno radioso di quello che pensassimo. Ma questo non può e non deve essere un alibi: di fronte all’insensatezza delle bombe, delle uccisioni e dell’odio senza fine, abbiamo una sola arma per difendere noi stessi e tutte le vittime di queste tragedie senza fine: restiamo umani.

Francesco Maltoni

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