Dopo i referendum, come cambiano i servizi pubblici locali a rilevanza economica

Massimo Greco 22/06/11
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Il 12 e 13 giugno i cittadini italiani sono stati chiamati alle urne per votare sui quattro quesiti referendari promossi dai comitati referendari di cui due sull’acqua, uno sul nucleare e l’ultimo sul legittimo impedimento.

Il risultato è stato raggiunto, avendo tutti e quattro i quesiti superato abbondantemente il quorum necessario per rendere efficace l’effetto abrogativo sotteso ad ogni quesito.

Vale la pena soffermarsi sugli effetti del quesito col quale si è abrogata la normativa (articolo 23-bis del d.l. n. 112/2008), che disciplinava la gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica.

Prima, la norma abrogata obbligava l’Ente locale ad affidarsi al mercato per la gestione del servizio, adesso viene meno l’obbligo ma rimane comunque la necessità di optare per il modello di gestione più idoneo (gestione diretta, gestione in house, affidamento esterno mediante gara, affidamento a società mista), sulla base di valutazioni che risentono della normativa e dei principi immanenti nell’ordinamento comunitario.

E d’altra parte, la stessa Corte Costituzionale, con sentenza n. 24 del 2011, proprio nel contesto dell’esame preventivo in ordine all’ammissibilità del citato referendum, si era così espressa: “Nel caso in esame, all’abrogazione dell’art. 23-bis, da un lato, non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo (reviviscenza, del resto, costantemente esclusa in simili ipotesi sia dalla giurisprudenza di questa Corte – sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997 –, sia da quella della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato); dall’altro, conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (come si è visto, meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica (…)”.

Ora, secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa, appare scontato che la pubblica amministrazione che intenda acquisire lavori, servizi e forniture debba – e non semplicemente possa – rivolgersi al mercato nel rispetto degli istituti di derivazione comunitaria (Consiglio di Stato, sentenza 23 marzo 2003 n. 1289).

Secondo altro orientamento, ancora più recente, per i servizi pubblici a rilevanza economica degli enti locali, l’attuale quadro normativo non prevede l’ipotesi della gestione diretta (internalizzata), ciò a seguito della “…necessità di applicare la disciplina comunitaria ai servizi pubblici locali a rilevanza economica” (Tar Emilia Romagna, sezione I, sentenza n. 460 del 2010).

In pratica, è cambiato molto poco con il referendum abrogativo della normativa vigente in materia di gestione del servizio pubblico locale.

Nella vigenza dei principi comunitari, l’abrogazione dell’articolo 23-bis non centra l’obiettivo che i referendari si erano proposti.

La vacatio iuris che si è venuta a creare, per effetto dell’abrogazione della disciplina sui servizi pubblici di rilevanza economica, trova la sua naturale rete di contenimento legislativa proprio nelle disposizioni contenute nel Trattato della Comunità Europea e più precisamente nell’articolo 86, paragrafo 2, trasfuso nell’articolo 106 del TFUE.

La norma in parola stabilisce che “Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata”.

In effetti, non era pensabile che un referendum a carattere nazionale potesse incidere anche l’ordinamento comunitario …

Massimo Greco

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