Un pachiderma chiamato giustizia civile

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Assai poco confortanti sono stati i dati diffusi dal Centro Studi di Confindustria durante la tavola rotonda tenutasi ieri sul rapporto tra il sistema giustizia e la crescita economica del Paese.

Un confronto tra i portavoce del mondo imprenditoriale, le istituzioni, la politica e la pubblica amministrazione che ha messo a nudo una realtà tristemente già nota a chi, come me, è solito frequentare quotidianamente le aule di giustizia.

Non si possono più ignorare i numerosi effetti negativi che le mancanze ed inefficienze della nostra giustizia civile determinano sul mercato italiano: l’irragionevole lunghezza del processo e gli elevati costi ad esso legati fan sì che le imprese italiane vadano a cercare altrove il terreno fertile per crescere e svilupparsi mentre quelle straniere stentino a voler puntare sul mercato italiano per condurre i propri affari.

Basti solo riflettere sulla circostanza che un imprenditore per poter ottenere un decreto ingiuntivo nei confronti di un fornitore insolvente deve attendere oltre 3 mesi in Italia, mentre in Francia potrà ottenerlo in soli 15 giorni!

D’altro canto, secondo i dati raccolti dal Centro Studi di Confindustria, negli ultimi anni l’Italia si è posizionata ai primissimi posti nella classifica del numero di condanne ricevute dalla Corte Europea di Giustizia per infrazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (ovvero per l’irragionevole durata del processo), preceduta solamente da Grecia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Macedonia ed Ucraina.

Si è stimato che nel nostro Paese la durata media di un processo di primo grado è di circa 533 giorni (se si è molto fortunati!), mentre in Francia è di 286 giorni ed in Austria di appena 129 giorni.

A tale problema si aggiunge poi quello dei costi che un sistema giustizia lento ed inefficiente porta con sé: non è un caso, infatti, che un’impresa su tre preferisca tollerare un inadempimento contrattuale della controparte commerciale negoziando un accordo troppo spesso svantaggioso ed iniquo piuttosto che affidarsi alla lenta e costosa macchina della giustizia.

Per vedere tutelati i propri diritti dinanzi al Tribunale le imprese in Italia, sempre stando ai dati resi noti, sopportano un costo pari a circa il 30% del valore della controversia, contro il 14% della Germania e degli Stati Uniti ed il 17% della Francia e della Spagna.

Ma quali sono le motivazioni di tale non proprio edificante situazione in cui versa il nostro Paese e quali le risposte della politica sul punto?

Ebbene, le ragioni sono le più disparate ma essenzialmente sono da ricercarsi – come era ragionevole attendersi – nella cattiva organizzazione delle risorse umane e finanziarie a disposizione, rispetto a quanto fanno invece altri Paesi Europei.

Appare opportuno soffermarsi sul fatto che l’Italia spende circa lo 0,20% del suo PIL per il funzionamento del sistema giustizia, ovvero più della Francia e del Regno Unito (ma con risultati in termini di efficienza ben più scarsi, per quanto abbiamo sin qui visto).

La distribuzione geografica dei Tribunali, inoltre, rimasta ferma all’ultima revisione delle circoscrizioni degli anni ’90, non è più in grado di riflettere in maniera concreta ed attuale la distribuzione dei cittadini e lo sviluppo economico delle singole aree del territorio.

Oltre ad essere mal distribuiti, gli uffici giudiziari sono spesso troppo piccoli, non riuscendo così a garantire ai cittadini una elevata specializzazione interna dei magistrati, costretti ad occuparsi di cause aventi ad oggetto materie troppo disomogenee tra loro.

Secondo i ricercatori, inoltre, non ci si può esimere dal prendere in considerazione che siamo un popolo eccessivamente litigioso (per citare un dato concreto, a fronte di 4 procedimenti instaurati in Italia ogni 100 abitanti, in Francia ne vengono attivati 2, ovvero la metà) e che tale litigiosità sarebbe direttamente proporzionale, tra gli altri fattori, anche all’aumento del numero di avvocati nel nostro Paese (sic!).

Sarà interessante approfondire le ragioni che hanno portato a tale ultimo risultato…

Infine (ma in special modo), la tanto attesa e chiacchierata digitalizzazione del processo civile e l’introduzione delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione stentano a decollare, rimanendo appannaggio di pochissimi uffici giudiziari (ovvero soltanto il 18% dei tribunali ordinari).

Non è un mistero che gli interventi normativi pensati ed adottati sin qui dai nostri Governi, scontrandosi con una macchina complessa, lenta e di proporzioni ciclopiche, fanno fatica a trovare una risposta nella realtà quotidiana.

Come mai, infatti, nonostante il processo di digitalizzazione della giustizia civile sia in corso da quasi 10 anni, ad oggi non è ancora possibile (fatta eccezione per alcuni distretti particolarmente virtuosi) per gli avvocati effettuare per via telematica l’accesso alle informazioni riguardanti lo stato dei procedimenti, richiedere l’esecuzione di una notifica, effettuare un deposito, un’iscrizione a ruolo o richiedere ed ottenere copia di una sentenza comodamente dal PC di studio evitando così di dover sprecare tempo in inutili code agli sportelli del Tribunale?

Come mai, nonostante l’informatizzazione degli uffici giudiziari, ad oggi il personale dipendente non è stato adeguatamente formato ed istruito per poter svolgere in via elettronica anche i più elementari adempimenti?

E come mai, non si è ancora istituito il fascicolo elettronico degli atti di causa ed i verbali di udienza vengono ancora redatti con la penna stilografica?

Forse perché ancora si è fatto troppo poco e forse perché per attuare le riforme strutturali vere, concrete e che davvero interessano il Paese il passo è ancora molto lungo.

Federica Busetto

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