Torna la mediazione obbligatoria: un’opportunità di sviluppo e di crescita sociale

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La mediazione è una modalità alternativa di risoluzione delle dispute che, per sua natura, non può essere imposta dal legislatore o da un organo giudiziario, ma che dovrebbe scaturire dalla libera scelta delle parti, nella consapevolezza che solo cercando di raggiungere un accordo amichevole si può porre fine a una controversia con il minore dispendio di energie e soprattutto migliorando la qualità della vita delle parti coinvolte e preservandone i rapporti futuri.

Nel nostro ordinamento, più che assegnare alla mediazione il ruolo di metodo di pacificazione sociale, le si è attribuito quello di metodo deflattivo dell’enorme carico giudiziario che opprime, da nord a sud, i nostri tribunali; è sufficiente consultare le statistiche pubblicate dal Ministero della Giustizia, in occasione dell’apertura del corrente anno giudiziario, per apprendere che la pendenza di cause civili, comprese quelle di lavoro, nell’anno 2010 superava i cinque milioni e mezzo; praticamente un cittadino su cinque è, nel nostro paese, in attesa di giudizio.

In una situazione di grave crisi del sistema giudiziario, ormai conclamata, l’utilizzo di metodi alternativi al processo per la soluzione delle controversie è senza dubbio, non solo auspicabile, ma una via da percorrere obbligatoriamente.
Il nostro legislatore, però, non è riuscito, fin dalla sua introduzione nel 2010, ma ancora di più nel decreto del fare di recentissima approvazione, a dare alla mediazione una connotazione autonoma rispetto al giudizio e, soprattutto, a delineare la figura del mediatore professionista. Con il decreto legislativo 28/2010, infatti si è aperta la strada alla mediazione a tutti coloro che fossero in possesso di una laurea, seppur breve, in qualsiasi disciplina, a patto che frequentassero un corso di formazione base teorico –pratico della durata di cinquanta ore; formazione del tutto insufficiente a garantire un’adeguata professionalità al mediatore. Ma, soprattutto, fin da subito si è dato ampio spazio agli avvocati, i cui ordini si sono affrettati a istituire organismi di mediazione dotati di corsia preferenziale nell’iscrizione al Registro degli Organismi di mediazione istituito presso il Ministero della Giustizia. E’ sotto gli occhi di tutti, in particolare degli addetti ai lavori, come gli avvocati non abbiano saputo utilizzare al meglio questo nuovo strumento di soluzione del conflitto, sfornando una gran quantità di verbali negativi, al fine di aggirare l’ostacolo della condizione di procedibilità rappresentata dalla mediazione per tutte quelle materie elencate nell’art. 5 del citato decreto legislativo.
Non solo, sempre gli avvocati sono riusciti, ricorrendo alla Corte Costituzionale, ad ottenere nell’ottobre scorso una pronuncia di incostituzionalità dell’obbligatorietà della mediazione.
Oggi però, la mediazione, nella sua veste di passaggio obbligatorio, prima di procedere in sede giudiziaria, si ripresenta con il Decreto del fare, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 20 agosto scorso. Il legislatore del fare ha trovato il modo di accontentare la classe forense, attribuendo agli avvocati non solo il titolo di mediatori ipso jure, ma anche quello di assistenti obbligatori al percorso mediativo e, cosa ancora più importante, il ruolo di garanti ai fini dell’attestazione e certificazione della conformità dell’accordo raggiunto in mediazione alle norme imperative e all’ordine pubblico; accordo che sottoscritto dalle parti e dai loro avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
E’ quindi del tutto evidente come il ruolo dell’avvocato oggi nella mediazione sia centrale, tanto come mediatore quanto come difensore, è pertanto auspicabile che la classe forense colga questo vantaggio come un’opportunità di crescita professionale, personale e sociale, in quanto la mediazione civile e commerciale, come metodo alternativo di risoluzione delle dispute, rappresenta per la nostra cultura un atteggiamento costruttivo di approccio al conflitto, al quale non si è ancora avvezzi e che i più guardano ancora, a distanza di ormai tre anni dalla sua introduzione nel nostro ordinamento, con diffidenza e ostilità, continuando a preferire le aule giudiziarie come luogo deputato alla soluzione delle controversie. Questo atteggiamento è dovuto, ad avviso di chi scrive, alla scarsa conoscenza delle dinamiche del conflitto, che è una componente naturale delle relazioni interpersonali, alla ridotta attenzione al benessere dell’individuo e, di riflesso, della società, nonché alla scarsa sensibilità nei confronti delle ricadute negative che il conflitto irrisolto può avere sulla qualità della vita.

 

Paola Martinelli

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