Con la sentenza n. 135 del 2025, la Corte costituzionale ha riaperto una questione mai davvero sopita: quella del cosiddetto tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici. Per anni fissato a 240.000 euro lordi annui, quel limite aveva sollevato dubbi, critiche e battaglie giudiziarie, soprattutto tra i magistrati. Ora, la Consulta ha deciso: quel tetto, così come stabilito nel 2014, è incostituzionale.
Attenzione: la Corte non dice che il tetto in sé sia illegittimo, ma che deve tornare ad essere parametrato allo stipendio del Primo Presidente della Corte di Cassazione, come avveniva originariamente.
Vediamo cosa significa, quali sono le conseguenze e, soprattutto, cosa cambia per i dipendenti pubblici e per lo Stato.
Indice
- Che cos’è il tetto retributivo e da dove nasce?
- Cosa ha deciso la Corte costituzionale
- Il ritorno al parametro originario: la retribuzione del Primo Presidente della Cassazione
- La temporaneità come criterio di legittimità
- La violazione del principio di indipendenza della Magistratura
- Perché questa sentenza è importante?
- Chi riguarda la sentenza sul tetto agli stipendi pubblici
- FAQ – Domande frequenti sulla sentenza
- Riassunto della sentenza n. 135/2025
Che cos’è il tetto retributivo e da dove nasce?
Il cosiddetto tetto agli stipendi pubblici nasce con il decreto-legge n. 201/2011, nel pieno della crisi economica. L’idea era contenere la spesa pubblica evitando che chi lavora per lo Stato, a qualsiasi titolo, potesse percepire stipendi spropositati.
Come parametro, si scelse lo stipendio del Primo Presidente della Corte di Cassazione. Ma con il decreto-legge n. 66/2014, convertito nella legge n. 89/2014, si cambiò strategia: non più un parametro dinamico, legato all’evoluzione dello stipendio di quella carica, ma un importo fisso: 240.000 euro lordi annui.
Questo cambiamento ha avuto un effetto immediato: decurtazioni salariali per chi, sommando più incarichi, superava la soglia, in particolare magistrati, dirigenti apicali, professori universitari e membri di organi di autogoverno.
Cosa ha deciso la Corte costituzionale
Con la sentenza n. 135 del 2025, la Corte costituzionale ha affrontato in modo articolato e puntuale la questione del tetto retributivo imposto ai dirigenti pubblici. La Consulta ha ritenuto che l’articolo 13, comma 1, del decreto-legge n. 66 del 2014, che stabiliva in 240.000 euro lordi annui il massimo compenso percepibile dai dipendenti pubblici, è in contrasto con la Costituzione. Ma attenzione: non è il concetto di “tetto retributivo” in sé ad essere incostituzionale, bensì la sua quantificazione fissa e rigida, scollegata da ogni parametro oggettivo e aggiornabile.
La Corte ha detto chiaramente: quel tetto non è più compatibile con la Costituzione, perché ha perso il suo carattere di temporaneità e incide sull’indipendenza della magistratura.
In particolare:
- non è il tetto in sé ad essere incostituzionale. È illegittimo fissarlo in modo rigido, senza collegarlo ad un parametro coerente e aggiornabile.
- Il parametro corretto torna ad essere lo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione, come previsto originariamente nel 2011.
- La Corte ha riconosciuto che la misura del 2014 era giustificata solo in via straordinaria e temporanea, vista la crisi economica, ma che dopo oltre dieci anni non ha più senso mantenerla.
- Non c’è retroattività: l’illegittimità produce effetti solo dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale.
Il ritorno al parametro originario: la retribuzione del Primo Presidente della Cassazione
Fino al 2014, il limite massimo retributivo era agganciato al trattamento economico del Primo Presidente della Corte di Cassazione. Questo meccanismo permetteva una certa elasticità e garantiva una coerenza interna alla Pubblica Amministrazione, dato che legava le retribuzioni più alte a quelle di una figura apicale e istituzionalmente autonoma.
Il decreto del 2014, invece, ha introdotto una soglia fissa, indipendente da aggiornamenti automatici o dinamiche salariali generali, comportando una reale compressione economica per molte figure apicali, soprattutto nella magistratura.
La temporaneità come criterio di legittimità
La Corte ha evidenziato che la misura del 2014 poteva essere considerata legittima solo nel contesto di eccezionale crisi economico-finanziaria in cui era nata. All’epoca, infatti, l’Italia si trovava in una situazione emergenziale, segnata da vincoli di bilancio e da una pressione internazionale sulle finanze pubbliche. In quel quadro, una misura straordinaria e temporanea di contenimento della spesa poteva giustificarsi anche in presenza di sacrifici per alcune categorie di lavoratori pubblici, purché non eccessivi né permanenti.
Ma, dopo oltre dieci anni, secondo la Corte, sono venute meno le condizioni eccezionali che giustificavano la norma. Il tetto retributivo fisso è diventato una misura strutturale, non più una risposta emergenziale, e in quanto tale incide ora in modo sproporzionato e permanente sull’equilibrio tra i poteri dello Stato e sulla tutela dell’autonomia e dell’indipendenza di alcune categorie, in primis la magistratura.
La violazione del principio di indipendenza della Magistratura
Uno dei punti centrali della pronuncia è proprio la violazione degli articoli 101, 104 e 108 della Costituzione, che sanciscono il principio di indipendenza della magistratura. La Corte ha chiarito che le garanzie economiche, comprese le indennità di funzione percepite da magistrati che ricoprono ruoli negli organi di autogoverno (come il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa), non sono semplici privilegi ma strumenti funzionali alla tutela dell’autonomia dell’ordine giudiziario.
Ridurre stabilmente queste indennità attraverso un tetto retributivo rigido – come ha fatto il legislatore nel 2014 – disincentiva la partecipazione dei magistrati più esperti agli organi di governo autonomo, minandone la rappresentatività e, in ultima analisi, l’equilibrio democratico tra poteri. Non si tratta solo di un danno al singolo, ma a un intero assetto costituzionale.
Altra precisazione importante della Corte riguarda il concetto di “illegittimità sopravvenuta”. La norma, inizialmente ritenuta compatibile con la Costituzione, ha perso la sua giustificazione nel tempo. È questa mutata condizione fattuale e normativa che ha portato la Corte a dichiararne l’incostituzionalità oggi.
Tuttavia, proprio perché si tratta di una pronuncia basata su mutamenti successivi, la declaratoria non ha effetti retroattivi. In concreto, questo significa che gli stipendi decurtati negli anni passati non verranno restituiti. Gli effetti della sentenza decorrono solo dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, secondo il principio di certezza del diritto e per evitare contenziosi a valanga sul piano risarcitorio.
Perché questa sentenza è importante?
Questa è una sentenza centrale, perché tocca un principio chiave dello Stato di diritto: l’indipendenza della magistratura e più in generale la giusta retribuzione dei dipendenti pubblici.
La Corte ricorda che il trattamento economico, inclusi premi e indennità, fa parte delle garanzie che proteggono l’autonomia e la terzietà del giudice. Non si tratta solo di soldi, ma di rispetto per il ruolo e per la funzione che si esercita.
E non è una questione solo italiana. La Corte cita anche una recente decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea (25 febbraio 2025), che ha bocciato riduzioni retributive stabili per i magistrati, a meno che non siano temporanee e giustificate da gravi esigenze.
Chi riguarda la sentenza sul tetto agli stipendi pubblici
La pronuncia della Consulta sul tetto agli stipendi pubblici riguarda potenzialmente tutti i dipendenti della PA, anche se la pronuncia nasce da un caso specifico: il ricorso di un presidente di sezione del Consiglio di Stato, penalizzato per aver superato il tetto percependo anche l’indennità come membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa.
Quindi, i primi beneficiari saranno i magistrati, specie quelli con incarichi aggiuntivi. Ma la decisione ha effetto generale, e riguarda ogni dipendente pubblico che percepisce emolumenti a carico dello Stato.
FAQ – Domande frequenti sulla sentenza
Il tetto agli stipendi pubblici è stato eliminato?
No. È stato eliminato solo il tetto fisso di 240.000 euro. Il tetto in sé rimane, ma deve essere parametrato allo stipendio del Primo Presidente della Cassazione.
Cosa significa “non è retroattiva”?
Significa che non si potranno recuperare gli stipendi tagliati negli anni passati. La sentenza vale solo per il futuro, dal giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Chi stabilirà il nuovo tetto?
Il nuovo limite sarà fissato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentite le Commissioni parlamentari. Il parametro sarà, come in passato, il trattamento economico complessivo del Primo Presidente della Corte di Cassazione.
Riassunto della sentenza n. 135/2025
· Norma censurata: art. 13, comma 1, del d.l. 66/2014, che fissava in modo rigido il tetto a 240.000 euro lordi.
· Motivazione: il limite ha perso il carattere di temporaneità, viola il principio di indipendenza della magistratura, e crea disparità.
· Effetti: il tetto retributivo torna ad essere dinamico, legato allo stipendio del Primo Presidente della Corte di Cassazione.
· Non è retroattiva, vale solo per il futuro.
· Riferimenti normativi violati: artt. 101, 104 e 108 della Costituzione.
· Influenza UE: la Corte cita la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.
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