Quello che il Governo e molta parte dei media (e conseguentemente di tantissimi cittadini fuorviati da un’informazione non corretta) non comprendono è che il giochino al massacro con gli enti locali comporta necessariamente la riduzione dei servizi.
Il fatto più eclatante, uno dei leit motiv di questi mesi è il “riordino” delle province. Il 99,9% di politici, giornalisti e persone plaude contentissimo a questa iniziativa, scellerata, del Governo. Si è fatta passare l’idea che le province “costino” 12,5 miliardi di euro e che, dunque, riducendole tale spesa a sua volta si ridurrebbe.
Questo assurdo modo di intendere l’erogazione dei servizi pubblici ha scatenato i sedicenti “tecnici” che, alla ricerca (non si sa perché) di consenso e popolarità (Monti cita continuamente i sondaggi di gradimento, come fosse un politico alla caccia dei voti), si sono buttati a capofitto in un’impresa che, alla prova dei fatti, risulterà dannosissima per i cittadini in primo luogo.
Non tanto e non solo perché le province vengono devastate, con la creazione di nuovi territori immensi e la sottrazione di funzioni tipicamente troppo grandi per i comuni e troppo piccole per le regioni, ma, soprattutto, perché si è ormai affermata un’idea perversa dei “costi della politica”.
Non si riesce più a distinguere quali siano davvero gli odiosi costi connessi all’esercizio puro e semplice di un mandato politico, dalle spese, invece, necessarie per la semplice civile convivenza.
Tutto, ormai, pare ricadere nei “costi della politica”. Dunque, si accorpano le province creando dei mostri geografici riducendone le dimensioni, ma, soprattutto si dispongono tagli ai finanziamenti rilevantissimi, che, per altro, coinvolgono anche i comuni.
L’idea che ogni spesa sia “costo della politica” ha ormai preso piede. E non si sa più distinguere l’indennità ed il gettone di presenza, lo “staff” del politico, il consulente, il dirigente a contratto, il contributo all’associazione che fa la sagra e drena voti, il portavoce, l’addetto stampa e comunicazione, da tutto il resto, cioè i servizi veri.
Il taglio di 1,5 miliardi ai trasferimenti alle province (che, come gli altri enti locali, hanno un finanziamento fortemente derivato dallo Stato) previsto nel 2013 è, insieme col “riordino”, il segno di un modo davvero distorto di intendere le funzioni amministrative.
Forse il presidente dell’Upi, Saitta, sarà poco “consono”, come ha sottolineato uno spocchioso Ministro della Funzione Pubblica in perfetto stile “prefetto di Napoli”, ma di sicuro ciò che poco è consono è il finanziamento che lo Stato eroga alle province.
La spesa già citata di 12,5 miliardi di euro è composta per circa 8,5 miliardi da spese correnti, proprio quelle oggetto del taglio. Di questi, 2,5 miliardi occorrono per il personale. Il volume di spesa corrente, al netto del rimborso dei prestiti, manovrabile è di circa 5,5 miliardi.
Lo capirebbe chiunque che sottraendo alle entrate 1,5 miliardi, oltre un quarto, cioè, del finanziamento della spesa disponibile, le province sono di fronte a un bivio: o elevare le imposte, oppure tagliare i servizi.
La prima opzione è impraticabile: l’autonomia finanziaria delle province è estremamente limitata. Per altro, l’imposizione è legata a imposte sulla compravendita di automobili o addizionali energetiche; il gettito di tali imposte è necessariamente destinato a calare, per effetto della crisi.
Non resta chela seconda. Quella del presidente Saitta non è una boutade provocatoria di un presidente poco consono, ma l’osservazione realistica di una persona responsabile, posta a rappresentare un insieme di istituzioni oggetto di attacco da parte del Governo, che ascolta l’onda dei media, invece di curarsi delle necessità dei cittadini.
Perché le province, forse ancora a Palazzo Chigi e a Palazzo Vidoni non è chiaro, di competenze ne hanno e ne gestiscono. Si leggano il d.lgs 112/1998 e le leggi regionali conseguenti.
Le scuole superiori costituiscono una delle principali voci di spesa, sia in conto capitale, sia di natura corrente. Gli edifici scolastici sono circa 5000 e sono stati lasciati in eredità circa 10 anni fa alle province da comuni e Stato in condizioni a dir poco disastrose. Il volume di spesa per consentire l’esercizio del diritto allo studio è immenso.
Sono le province, non il Ministero dell’istruzione, contrariamente a quello che molti credono, ad affrontare la spesa per il funzionamento logistico delle scuole: manutenzioni, lavori, utenze, arredi.
E’ assolutamente evidente che una riduzione talmente drastica dei finanziamenti provinciali può incidere in modo drastico sull’erogazione dei servizi.
Le province faranno di tutto, evidentemente, per non compromettere l’anno scolastico. Ma, il patto di stabilità e le sue regole da anni, ormai, hanno imposto una riduzione formidabile delle spese di investimento che già ha coinvolto proprio le manutenzioni degli edifici scolastici e delle strade.
La ciliegina sulla torta potrebbe venire, poi, dalla legge di stabilità, che, tra le altre idee “consone” contiene quella del taglio degli arredi dell’80% rispetto al 2011. Non v’è alcuna specificazione di quali arredi si tratti. Sarebbe auspicabile che qualcuno chiarisca espressamente che non vi sono inclusi quelli scolastici, i quali sono soggetti ad un continuo ricambio. Dovesse considerarsi questo taglio operativo senza alcuna specificazione si corre persino il rischio che vengano costruite nuove scuole per fare fronte ad incrementi della popolazione scolastica, ma lasciarli privi non tanto di riscaldamento, quanto di banchi e sedie.
Se dal tecnicismo meramente finanziario e dal populismo attento ai sondaggi il Governo riuscisse a passare ad un’analisi “consona” della realtà, sarebbe molto utile, non per salvare enti che, tutto sommato, possono anche essere soppressi, ma le funzioni che svolgono, le risorse che si spendono e i servizi che si rendono. Soppresse le province, qualcuno quei servizi li dovrà rendere. In modo “consono”.
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