Lavoro pubblico escluso da riforma articolo 18 con decreto ad hoc

Luigi Oliveri 11/12/15
Possiamo affermare che la sentenza della Corte di cassazione 26 novembre 2015, n. 24157 un effetto l’ha certamente ottenuto. Ha finalmente persuaso il Governo che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come riformato dalla legge Fornero (così la sentenza), ma anche dal d.lgs 23/2015 (così la logica) si applica al lavoro pubblico e che, dunque, per escludere gli effetti delle riforme occorre una legge specifica.

La conferma è data da La Repubblica dell’8 dicembre 2015, con l’articolo a firma di Luisa Grion “Decreto escluderà Jobs Act per statali”. Sulla notizia l’articolo è bene informato e chiaro: “Il nuovo articolo 18, quello che in caso di licenziamento ingiustificato prevede l’indennizzo economico al posto del reintegro sul luogo di lavoro, non si applicherà ai dipendenti pubblici. Il governo lo metterà per iscritto, chiaro e tondo, in uno dei prossimi decreti attuativi sulla riforma della pubblica amministrazione. Varo previsto entro Natale o al massimo ai primi di gennaio”.

Poiché La Repubblica è giornale vicinissimo agli ambienti governativi, la notizia è da considerare più che fondata.

Alcune considerazioni, a questo punto, si impongono. Per anni, a partire dalla legge 92/2012, i Governi che si sono succeduti ed in particolare i Ministri della Funzione pubblica, nello specifico Patrono Griffi e Madia, nonché i Ministri del lavoro e segnatamente soprattutto Fornero e Poletti, si sono incaponiti sulla teoria dell’esclusione del lavoro pubblico dalle riforme dell’articolo 18, senza alcun fondamento. In questo, purtroppo, sostenuti da una schiera di consulenti ed esperti del diritto, fin troppo attenti alla creatività delle teorie astratte utili per sostenere tesi governative e meno attenti alla concretezza delle regole giuridiche, tanto da ipotizzare la chimera del “doppio testo”. Un articolo 18 double face, insomma, utilizzabile nella veste riformata in sede di vertenze relative ai licenziamenti nel lavoro privato e, invece, nella vecchia stesura laddove la vertenza riguardasse un dipendente pubblico.

Una teoria tanto suggestiva quanto bislacca, sulla quale la Cassazione ha messo definitivamente la parola fine, sì da far finalmente comprendere che se si vuole creare una disciplina della tutela dei licenziamenti illegittimi speciale per il lavoro pubblico, occorre una legge espressa che:

a)      modifichi l’articolo 51, comma 2[1], del d.lgs 165/2001, eliminando il rinvio dinamico da esso disposto allo Statuto dei lavoratori e sue modifiche ed integrazioni, che estende automaticamente ogni riforma non espressamente derogata al lavoro pubblico;

b)      oppure (o inoltre) disponga una previsione normativa di deroga alla disciplina della tutela dei licenziamenti espressamente dedicata al lavoro pubblico.

Questa intenzione pare acquisita, come acquisito, dunque, è la fondatezza e correttezza dell’interpretazione secondo la quale le riforme dell’articolo 18 si estendessero direttamente ed immediatamente al lavoro pubblico.

Acclarati questi elementi, c’è allora da verificare quanto sia costituzionalmente sostenibile una legge speciale che disciplini la tutela relativa al licenziamento illegittimo in modo differente a seconda che il datore di lavoro sia pubblico o privato.

Sul Corriere della sera dello scorso 6 dicembre il premier Renzi ha avanzato una giustificazione non priva di fascino: “Se sei dipendente pubblico significa che hai vinto un concorso. Non è che se cambia sindaco allora quello ti licenzia […] Ma nel pubblico è impossibile che, cambiando maggioranza politica, si possa licenziare: sarebbe discriminatorio”.

Le argomentazioni esposte, per fondare una legge speciale per il lavoro pubblico, sono, dunque, due:

a)      la modalità di reclutamento, tramite concorso pubblico;

b)      la qualificazione di un licenziamento dovuto al cambio di maggioranza politica come “discriminatorio”.

Nessuna di esse, tuttavia, regge ad un esame approfondito dei fortissimi rischi di incostituzionalità della legge speciale che si paventa.

Partiamo dalla seconda argomentazione, riguardante la connotazione discriminatoria di un licenziamento connesso a ragioni di natura politica.

In effetti, questa considerazione del premier non è nuova. Il 6 gennaio 2015 il 6 gennaio in un’intervista rilasciata al Messaggero l’allora ancora Sotosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio dichiarò sul tema: “La questione è delicata per vari motivi. Nel lavoro pubblico vi è la necessità di proteggere chi lavora da atteggiamenti discriminatori dovuti all’orientamento politico. Se quando cambia amministrazione c’è disponibilità di licenziare discriminatoriamente, rischiamo di distruggere la nostra burocrazia. Dal punto di vista generale, pur mantenendo queste attenzioni, è chiaro che è un ragionamento che va fatto. Il lavoro pubblico ha peculiarità sue proprie per la tutela del bene pubblico e degli interessi generali, ma credo che sia assolutamente legittimo e serio pensare ad un’evoluzione in questa direzione. Serve un ragionamento a 360 gradi senza particolari paure”.

Tuttavia, l’attenzione del Governo in vario modo riposta nella ricerca di una garanzia contro il licenziamento discriminatorio risulta fatica sprecata. Infatti, non occorre per nulla una norma particolare relativa al lavoro pubblico.

Evidentemente agli esponenti dell’esecutivo sfugge quanto dispone l’articolo 3 della legge 108/1990, ai sensi del quale “Il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti”.

Le ragioni discriminatorie che conducono alla nullità del licenziamento con conseguente reintegro, previste dall’articolo 4 della legge 604/1990 sono le seguenti: “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali è nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”.

Inoltre, ai sensi dell’articolo 15 della legge 300/1970 è nullo ogni patto o atto diretto a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

Pertanto, l’ordinamento vigente appresta già adeguata tutela contro i licenziamenti discriminatori, tanto nell’ambito privato quanto in quello pubblico, prevedendo la totale nullità del licenziamento. E l’articolo 2, comma 1, del d.lgs 23/2015, cioè il decreto attuativo del Jobs Act che ha di fatto disapplicato il reintegro nel caso del licenziamento illegittimo, mantiene fermo, invece, il reintegro proprio nel caso dei licenziamenti nulli in quanto discriminatori: “Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perchè discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perchè riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto”.

Si dimostra, quindi, leggi vigenti alla mano, che l’argomentazione secondo la quale occorra una norma speciale per garantire i dipendenti pubblici dalla discriminazione politica sia soltanto un espediente dialettico. In realtà non c’è bisogno alcuno di norme particolari, perché la tutela già oggi apprestata dalla legge, nel caso del licenziamento discriminatorio, è quella del reintegro e vale sia per i dipendenti privati, sia per i dipendenti pubblici[2].

Sgombrato il campo, dunque, dalla questione della garanzia dalla discriminazione per ragioni politiche, andiamo all’altra argomentazione, secondo la quale occorra per i dipendenti pubblici una tutela particolare dal licenziamento illegittimo in ragione della modalità di reclutamento. Poiché la Costituzione, all’articolo 97, impone l’accesso nei ruoli della PA mediante concorso pubblico, da ciò discenderebbe la necessità di una regola speciale sui licenziamenti.

Tuttavia, per essere certi che l’introduzione di una legge mirata ad escludere i dipendenti pubblici dalla disciplina generale della tutela dal licenziamento illegittimo, occorrerebbe ricavare dalla Costituzione norme espresse o quanto meno principi che fondino la necessità di una tutela speciale riservata ai dipendenti pubblici dal licenziamento.

Dando uno sguardo attento alla Costituzione, non è dato modo di reperire alcuna norma o principio che colleghi alla modalità di reclutamento tramite concorso la necessità di una tutela speciale dal licenziamento illegittimo, diversa da quella fissata nel lavoro privato.

Infatti, l’intento della Costituzione è garantire che l’accesso agli impieghi pubblici avvenga selezionando (pur con tutti i limiti dei concorsi) i migliori ed impedendo che ciò derivi da scelte arbitrarie o politiche.

Acclarato che un licenziamento discriminatorio per contrapposte ragioni politiche è già vietato nel pubblico come nel privato, non si vedono quali altre ragioni possano collegare l’assunzione per concorso, che è solo strumento per assicurare imparzialità e parità di condizioni, con le tutele dal licenziamento, posto che le ragioni per il licenziamento nel pubblico e nel privato sono simmetriche.

Altrimenti, occorrerebbe ricavare dalla Costituzione un diritto alla “permanenza” nel posto di lavoro pubblico, che oggettivamente non è possibile enucleare, per manifesta irragionevolezza.

I licenziamenti oggetto della nuova disciplina di tutela del d.lgs 23/2015 sono essenzialmente di due tipologie: quello connesso a giustificato motivo oggettivo, e quello disciplinare per giusta causa.

E’ innegabile che nell’ambito del lavoro pubblico possano ricorrere entrambi i casi. Il licenziamento disciplinare è ampiamente regolato dall’articolo 55-quater del d.lgs 165/2001 e dalle norme della contrattazione nazionale collettiva.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è a sua volta previsto, in termini generali, dall’articolo 33 del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale “le pubbliche amministrazioni che hanno situazioni di soprannumero o rilevino comunque eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria, anche in sede di ricognizione annuale prevista dall’articolo 6, comma 1, terzo e quarto periodo, sono tenute ad osservare le procedure previste dal presente articolo dandone immediata comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica”, procedure finalizzate al riassorbimento nel medesimo ente che evidenzia le ragioni oggettive, oppure, se ciò non sia possibile, alla ricollocazione verso altri enti, o, se anche ciò non risulti possibile, alla collocazione in disponibilità, preliminare alla risoluzione del rapporto di lavoro

Condivisibile o meno che sia l’impostazione del d.lgs 23/2015, esso dispone all’articolo 3, comma 2, che “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro”. Nel caso del giustificato motivo oggettivo non è mai possibile la reintegrazione nel posto di lavoro.

Non si vede quale possa essere la ratio di una distinzione tra lavoro pubblico e privato, ai fini della tutela di queste tipologie di licenziamento.

Se si ammettesse che solo nel settore privato il licenziamento disciplinare può essere annullato e portare alla reintegrazione esclusivamente laddove si dimostri l’assoluta assenza del fatto addebitato, allora si evidenzierebbero due situazioni inconciliabili. La prima, quella del sistema privato, nel quale la tutela della reintegrazione non si verifica nemmeno se si evidenzi l’eccessività del licenziamento rispetto al fatto contestato; la seconda, quella del lavoro pubblico, nell’ambito del quale invece resterebbe al giudice la possibilità di valutare nel merito la proporzione tra fatto commesso e disposizione del licenziamento.

La disparità di trattamento dei lavoratori, alla luce dell’articolo 3 della Costituzione, sarebbe più che evidente e delle due l’una: o sarebbe incostituzionale il d.lgs 23/2015, o risulterebbe incostituzionale la norma speciale che il Governo ha in mente di introdurre.

Lo stesso varrebbe, ovviamente, anche nel caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In realtà, Governo e Parlamento si sono cacciati da soli in un cul de sac. Lo stesso dibattito che si è aperto circa l’insufficienza delle garanzie da licenziamento nell’ambito pubblico rivela come le “tutele crescenti” siano in assoluto ben poco garantiste e, dunque, anche nell’ambito privato la sostanziale eliminazione delle tutele comporti una compressione evidente dei diritti (che per altro, almeno nel 2015, non ha dato alcuna spinta all’occupazione).

Insomma, se si afferma che le tutele dal licenziamento illegittimo per il lavoro pubblico sono insufficienti, si fornisce alla Corte costituzionale l’argomentazione decisiva per evidenziare l’incostituzionalità di una divaricazione estrema tra lavoro pubblico e privato, come quella che deriverebbe dalla previsione di disapplicare il Jobs Act solo per i 3 milioni di dipendenti pubblici, lasciandolo in vita per i 14 milioni di dipendenti privati.

L’unico sistema per escludere dalla disciplina del Jobs Act il lavoro pubblico potrebbe, forse, consistere nel rivedere totalmente le riforme di questi ultimi 25 anni e tornare all’impiego sorretto solo da regole pubblicistiche, sottraendo, dunque, tutti i dipendenti pubblici e non solo quelli indicati dall’articolo 3 del d.lgs 165/2001 dal regime della soggezione alle leggi del lavoro nelle aziende, regime conosciuto come “privatizzazione” o “contrattualizzazione”.

Ovviamente, si tratterebbe di una forzatura estrema. Forse, da un certo punto di vista non del tutto inopportuna, visto che i risultati delle riforme del lavoro pubblico di questo quarto di secolo non sono state per nulla incoraggianti. Ma, un ritorno al passato così deciso apparirebbe davvero fuori dal tempo.

Il rischio concreto, dunque, è quello di creare l’ennesimo dualismo nel mondo del lavoro, in attesa che la Corte costituzionale, prima o poi (specie quando la sua composizione si dovesse connotare da forte distanza dalle idee politiche dell’attuale maggioranza) evidenzierà l’incostituzionalità di detto dualismo.

Infine un’annotazione. Il senatore Ichino, convinto dell’inopportunità di creare un regime speciale per il lavoro pubblico, insiste nell’affermare che l’estensione delle “tutele crescenti” anche al lavoro pubblico sarebbe l’unica garanzia contro il precariato.

A parte la circostanza che le tutele crescenti, come detto sopra, non hanno in alcun modo incrementato il numero degli occupati nell’ambito privato, nel caso di specie si tratta davvero di una formula vuota.

L’ingresso nel lavoro pubblico non è certo condizionato dalla più o meno facile “licenziabilità” dei dipendenti, ma dall’organizzazione (in gran parte da rivedere) e, soprattutto, dalle disponibilità finanziarie.

Un datore pubblico risulta sostanzialmente indifferente alle regole di flessibilizzazione del mercato del lavoro, visto che può programmare le proprie assunzioni a ben vedere non connettendole direttamente a fabbisogni e sistemi di produzione, bensì in relazione al rispetto dei tanti, troppi, vincoli alla spesa ed al turn over posti dalla legge.

In secondo luogo, le “tutele crescenti” nell’ambito privato avrebbero dovuto essere (sin qui senza esito) un incentivo per indurre gli imprenditori ad assumere prevalentemente con rapporti di lavoro a tempo indeterminato (facilmente recedibili), piuttosto che mediante contratti precari; ma, nell’ambito del lavoro pubblico l’articolo 36 del d.lgs 165/2001 impone proprio il contratto a tempo indeterminato come sistema privilegiato e principale di assunzione, relegando i contratti flessibili ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale.

Di conseguenza, le “tutele crescenti” per l’ordinamento del lavoro pubblico non hanno alcuna significatività, né possono spingere più di quanto già non disponga il citato articolo 36 del d.lgs 165/2001 o il d.l. 101/2013 a contenere il fenomeno del precariato in ambito pubblico.

Semmai, sarà opportuno che il Governo ed il Parlamento, qualsiasi scelta compiano sul tema dei licenziamenti, comprendano la necessità anche di regolamentare le responsabilità connesse ai licenziamenti illegittimi. Non appare infatti funzionale al sistema che la pronuncia dei giudici del lavoro sulla legittimità dei licenziamenti, porti essa al reintegro o al pagamento di un indennizzo, configuri responsabilità erariale. Finchè queste siano le conseguenze eventuali dell’adozione di atti datoriali da parte di dirigenti pubblici, la questione sulla tutela dei licenziamenti resterà comunque relegata alla lana caprina ed al mondo degli slogan, considerando il bassissimo numero di licenziamenti in ambito pubblico.


[1] Se ne riporta il testo: “La legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.

[2] E’ da notare che la legge 124/2015, con specifico riferimento alla dirigenza pubblica, ha costruito meccanismi diametralmente inconciliabili con le garanzie da discriminazione per ragioni politica, pur enunciati dai componenti del Governo come ragione alla base di una legge specifica che escluda il lavoro pubblico dalla riforma dell’articolo 18. Infatti, è stato realizzato un sistema di nomina e licenziamento della dirigenza pubblica, esattamente fondato sull’appartenenza politica e su modalità di risoluzione di fatto del rapporto di lavoro, tali da escludere qualsiasi tutela per il dirigente interessato.

La legge 124/2015 prevede per gli incarichi dirigenziali la sola “possibilità” che siano conferiti ai dirigenti di ruolo, assunti cioè con contratto a tempo indeterminato. Con ciò, indirettamente, si afferma che identica possibilità spetti, magari in via prioritaria, a soggetti non appartenenti ai ruoli, assunti senza concorsi e a chiamata diretta, come oggi avviene ai sensi degli articoli 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e, per gli enti locali, dell’articolo 110, comma 1, del d.lgs 267/2000.

Esiste una relazione precisa tra la precarietà dell’incarico dirigenziale introdotta dalla legge 124/2015 e l’assenza di tutela da licenziamento discriminatorio. Se per i dirigenti assunti, mediante concorsi pubblici, con contratto a tempo indeterminato il conferimento di un incarico è una mera “possibilità”, per un organo politico sarà semplicissimo disfarsi del dirigente medesimo per intenti politici e senza essere nemmeno tenuto a disporre il licenziamento e correre il rischio di incappare nella nullità in quanto discriminatorio. Vediamo come la legge 124/2015 giunge a questo risultato apparentemente paradossale, ma in realtà fortemente voluto. Essa dispone che gli incarichi siano attribuiti ai dirigenti sulla base di “rose” formate da apposite Commissioni, le quali, tuttavia non condizioneranno la scelta definitiva dell’organo di governo che disporrà del potere pieno di decidere quale dirigente incaricare e quale no. Ovviamente, se il plafond degli incarichi dirigenziali sarà in grossa parte riempito da persone scelte senza concorsi fuori dagli organici, si creano le condizioni per una situazione di carenza di incarichi da attribuire ai dirigenti di ruolo.

A questo punto, per disfarsi di un dirigente poco gradito sul piano politico, l’organo di governo non dovrà far altro che riempire le caselle vuote degli incarichi dirigenziali col maggior numero possibile di cooptati esterni, determinare, così, una situazione artificiosa di carenza di incarichi e lasciare il dirigente sgradito privo di incarico. Basterà attendere, allora, che decorra il termine massimo, non ancora quantificato, di permanenza nel ruolo unico dirigenziale senza incarico, decorso il quale la risoluzione del rapporto di lavoro del dirigente non politicamente schierato risulterà cosa fatta, rimediabile eventualmente solo con un umiliante eventuale demansionamento a funzionario (in questo caso, la legge non ha tenuto in alcun conto della circostanza che i dirigenti di ruolo hanno acquisito la relativa qualifica dopo aver superato un concorso pubblico).

Che tutela potrebbe promuovere il dirigente nei riguardi di simile azione finalizzata alla perdita del suo lavoro? Nessuna. Non trattandosi di un atto espresso di licenziamento, ma del frutto di meri fatti (la mancata assegnazione dell’incarico e la permanenza nel ruolo oltre i termini previsti), simile risoluzione del rapporto di lavoro non è tecnicamente un licenziamento discriminatorio, anche se di fatto può essere esattamente il fine del comportamento dell’organo di governo che non rinnovi l’incarico dirigenziale.

Sicchè, l’organo politico potrebbe disfarsi del dirigente o vertice amministrativo non conforme alle direttive di partito, senza correre alcun rischio di porre in essere licenziamenti nulli in quanto discriminatori. Jobs Act o non Jobs Act.

Luigi Oliveri

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