Sistema risarcitorio civilistico e indennitario Inail: danno tanatologico

Redazione 31/08/14
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IL PROGRESSIVO EVOLVERSI ED APPROSSIMARSI DEL SISTEMA RISARCITORIO CIVILISTICO E DEL SISTEMA INDENNITARIO INAIL:
IL DANNO TANATOLOGICO ALLA LUCE DELLA PRONUNCIA DELLA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE N. 1361/2014

Dalla “capacità lavorativa generica” al “danno biologico” come fondamentale cartina al tornasole del quantum indennizzabile.
L’introduzione nel sistema assicurativo previdenziale della voce “danno biologico” segna una rivoluzione copernicana di quella che era l’architettura consegnataci dal d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124. Difatti, sull’art.74 del sopra citato testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali – che in origine poneva alla base del meccanismo delle pubbliche erogazioni i danni coinvolgenti la sola capacità lavorativa generica – interviene a più riprese la Corte Costituzionale, abbandonando la tradizionale visione paneconomica sull’afflato della nuova e sempre più pressante esigenza sociale di protezione della salute degli individui partecipanti al processo produttivo.
Stelle polari di tale cambiamento sono le pronunce n. 87 del 15 febbraio 1991 , n. 356 del 18 luglio 1991 e n. 458 del 27 dicembre 1991 , con le quali la Consulta ha sposato il mutato sentire comune, affermando con forza la necessità che il sistema assicurativo INAIL si fondi non più sulla sola ed anacronistica perdita dell’attitudine al lavoro, ma anche e soprattutto sulle areddituali menomazioni all’integrità psicofisica del dipendente occorse nell’ambito dell’attività lavorativa.
Quanto affermato dapprima solo a livello giurisprudenziale è approdato per mano del legislatore nell’art. 13 del d.lg. n. 38 del 23 febbraio 2000, che, con una definizione meramente e dichiaratamente sperimentale di danno biologico come “lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona” e stabilendo che “le prestazioni per il ristoro [di esso] sono determinate in misura indipendente dalla capacita’ di produzione del reddito del danneggiato”, ha superato la vexata quaestio circa il suo annoveramento nella cerchia dei danni coperti dall’assicurazione obbligatoria e ne ha rimarcato il carattere areddituale.
Il precipitato innovativo è evidente: ante modifica del sistema delineatosi dal 1965, l’ente previdenziale si limitava a risarcire i soli danni patrimoniali conseguenti allo svolgimento delle mansioni e al lavoratore competeva poi l’autonoma azione in giudizio nei confronti del datore di lavoro per ottenere anche il recupero dei danni riguardanti lesioni dell’integrità psicofisica.
Per effetto di tale riforma guidata dai “virtuosismi” della Suprema Corte, il diritto giuslavoristico si interseca col diritto comune, facendo propri i traguardi raggiunti da quest’ultimo in materia di danni e protezione della persona. I principi risarcitori del diritto privato contribuiscono infatti alla dilatazione dell’alveo delle perdite indennizzabili dall’ente pubblico, così ridonandogli efficacia ed efficienza a livello di garanzie. L’approssimarsi del sistema civilistico e del sistema pubblicistico, e l’abbandono dell’iniziale divario in favore del trapianto nel secondo degli importanti ottenimenti garantistici del primo, è un’evidente espressione di civiltà giuridica.
L’accomunanza dei meccanismi risarcitorio ed indennitario è avvenuta per mezzo della figura del danno biologico, poiché in grado di esaltare i principi di tutela della salute e di dignità del soggetto danneggiato ex art. 32 Cost., nonché l’altrettanto importante principio di uguaglianza ex art. 3 della stessa Carta. Appariva infatti lampante come la normazione tradizionale comportasse una disparità di trattamento ed un chiaro vulnus del soggetto la cui lesione conseguisse ad infortuni sul lavoro o malattie professionali, tutelato quindi ai sensi della legislazione speciale, rispetto al danneggiato comune che veniva risarcito sulla base del codice civile e della giurisprudenza privatistica.
A ragione si parla dell’art. 13 come della prima giuridificazione nel settore previdenziale dei principi consolidati nella giurisprudenza civilistica in tema di danno alla persona .
Altri due aspetti sono sintomatici di tale tentativo di uniformità: da un canto non si ripete l’ormai risolto nodo gordiano che ha coinvolto in passato le corti civili in merito alla configurabilità delle lesioni alla salute come danno-evento o danno conseguenza, assestandosi su quest’ultima tesi e richiedendone sempre l’allegazione e l’accertamento; e, secondariamente, ma non in ordine d’importanza, esso è stato dotato, come accennato, d’una definizione che si autoproclama come meramente sperimentale, a lasciare aperta la possibilità di eventuali ulteriori adattamenti a future concezioni del legislatore civile.
D’altronde, facilmente ci si avvede di come l’interdipendenza sia reciproca, laddove ci si soffermi sull’estensione al sistema civilistico di concetti come quelli di inabilità temporanea, di inabilità permanente assoluta o parziale,di invalidità micro permanenti, tutti mutuati dal diritto del lavoro. Di una certa fortuna, se fatte travalicare oltre il settore specifico loro proprio per riversarle nel diritto comune, potrebbero godere anche le tabelle contenute nell’appendice inserita tramite il decreto ministeriale 12 luglio 2000: si rifletta sulla convenienza di tale tipo di operazione considerando la mancanza di tabelle di legge riguardanti la responsabilità civile (ad esclusione di quelle previste dall’art. 139 del codice delle assicurazioni, difatti, le Corti si rimettono alle tabelle in uso presso il tribunale di Milano).
Il sistema, come ridisegnato all’indomani del nuovo secolo, si caratterizza per essere misto ed imperniato su una doppia franchigia: esclusi dalla rifusione assicurativa il danno biologico permanente di lieve entità, canonizzato nella misura inferiore al 5%, nonché quello di natura temporanea, che rimangono affidati alle regole generali di responsabilità, ovvero, nel caso in cui quest’ultima gravi sul lavoratore, alla assicurazione privata – così aprendosi ad incertezze circa la sua coerenza rispetto al dettame proveniente dalla Corte Costituzionale sulla integrale risarcibilità del danno biologico, di cui si dirà nel prosieguo – riserva la corresponsione in rendita alle sole invalidità maggiori al 16% e fissa la corresponsione in capitale per le invalidità ricomprese nell’intervallo fra i due limiti percentuali anzidetti.
La somma in capitale poi, cresce e decresce in funzione della percentuale di invalidità e dell’età del danneggiato, nell’acclarato proposito di scollegarla del tutto da criteri tipici del danno patrimoniale, quali l’estrazione sociale o la capacità di produrre reddito.

2. La responsabilità civile del datore di lavoro.
L’art. 2087 c.c. costituisce il pilastro della responsabilità civile datoriale, ritenuto norma di chiusura del sistema infortunistico: infatti, ai sensi di tale disposizione, il datore di lavoro non può limitarsi al rispetto delle specifiche misure di prevenzione previste dalla legge, ma deve adottare tutte le cautele richieste dalla particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, nonché le generali regole di prudenza e diligenza, al fine di garantire l’incolumità fisica e la personalità morale dei suoi sottoposti . Quindi l’imprenditore risponderebbe sia per culpa in eligendo, sia per culpa in vigilando.
Ma, come contraltare dell’arricchimento di cui gode il datore per mezzo dell’utilizzo del capitale umano, sin dagli albori (legge n. 80/1898, introduttiva dell’obbligo della tutela assicurativa contro gli infortuni esclusivamente per alcune categorie occupazionali) fu previsto un automatico ed obbligatorio meccanismo assicurativo, in deroga ai principi comuni di responsabilità civile . È evidente il favor riconosciuto nei confronti del lavoratore, ritenuto soggetto debole del rapporto: egli ha infatti la sicurezza di un’automatica liquidazione senza la necessità di esperire alcuna azione giudiziale e, soprattutto, tale liquidità è ottenuta a prescindere dalla colpa del datore, anche se l’infortunio o la tecnopatia sia avvenuta per caso fortuito o addirittura per colpa del danneggiato.
Dal canto suo, la parte datoriale tramite il pagamento obbligatorio del premio assicurativo, ottiene un regime di esonero della responsabilità civile . L’art 10 del d.P.R. 1124/1965 stabilisce infatti che l’indennizzo erogato al lavoratore leso sia circoscritto al quantum stabilito secondo le speciali tabelle INAIL e solo ad esso, anche laddove si riveli inferiore al danno in concreto subìto: egli cioè rinuncerebbe all’esaustività del risarcimento in cambio di una tutela sicura ed automatica.
Tuttavia, la stessa disposizione prevede la riviviscenza della responsabilità civile secondo i dettami generali e la riespansione del diritto all’integrale risarcimento subìto, qualora l’evento verificatosi costituisca reato perseguibile d’ufficio, il cui autore sia lo stesso datore o un suo dipendente da lui incaricato della direzione o sorveglianza del lavoro .
L’ultimo assunto definisce allora il cosiddetto danno differenziale, ovvero la differenza appunto tra l’indennità ricevuta dall’INAIL e la maggior somma al cui pagamento è tenuto l’imprenditore a titolo di risarcimento.
Come ampiamente enunciato sopra, per lungo tempo il danno biologico non ebbe cittadinanza nel sistema assicurativo giuslavoristico e, operando l’esonero, ne derivava la sua completa irrisarcibilità, a meno che l’evento non configurasse un reato perseguibile d’ufficio e quindi al lavoratore si aprisse la possibilità di richiederla al di là della copertura dell’ente, direttamente al datore di lavoro come danno differenziale.
Su tale situazione paradossale e di ampia ineguaglianza del lavoratore infortunato rispetto ad un qualsiasi altro soggetto leso nell’integrità psicofisica, si è espressa la Corte Costituzionale affermandone la piena risarcibilità con tre sentenze dei primi anni ’90: gli artt. 10 commi 6, 7 ed 11 commi 1,2 del testo unico vengono dichiarati illegittimi costituzionalmente per contrasto con gli artt. 32 e 38 Cost. ed ivi si specifica come il danno biologico non rientri tra le figure coperte dall’assicurazione sociale e pertanto come per esso non possano certo valere né l’esonero da responsabilità , né il limite del danno differenziale eccepibile solo nella dimensione patrimoniale.
Le incertezze riaffiorano all’indomani della riforma: quid iuris al danno biologico, se il d.lgs. n. 38/2000 lo considera come prioritaria voce di danno indennizzabile INAIL in vece della passata lesione alla capacità lavorativa generica e, così facendo, sembrerebbe farlo rientrare nell’esonero ex art. 10 T.U. andando a ristabilire l’antica disparità?
Sebbene l’orientamento maggioritario della giurisprudenza sconfessi la risarcibilità ulteriore del danno biologico permanente rispetto al quantum già ricevuto dall’ente nella misura stabilita dalle tabelle (si evidenzia, somme minori di quelle previste dal Tribunale di Milano e dal d.lgs. 209/2005 per la stessa tipologia di danno), in forza del già illustrato compromesso sociale che tiene indenne il datore dalla normale responsabilità nei casi di rischi professionali, il dibattito non è ad oggi sopito.
A tal proposito, sono numerose le corti sostenitrici della tesi opposta, che negli anni hanno sollevato perplessità. In primis, essi ritengono che quanto caldeggiato dalla Consulta con le pronunce del ’91, non sia smentito dalla previsione del danno biologico all’interno del d.lgs. 38/2000: ferma la piena ed autonoma risarcibilità del danno biologico, dotato di protezione costituzionale in forza dell’art. 32, essa va semplicemente ad intersecarsi col principio dell’esonero da responsabilità civile di parte datoriale e col criterio del risarcimento del danno differenziale; ovvero il danneggiato potrà chiedere il risarcimento del danno di cui in oggetto solo nella misura ulteriore e maggiore rispetto a quanto già erogato nei suoi confronti dall’INAIL.
In secundis, la volontà del legislatore di condurre ad unità la quantificazione ed il conseguente risarcimento del danno biologico, non si può certo evincere dal lemmario normativo, se si considera che lo stesso art. 5 d.lgs. n. 38/2000 esplicitamente dichiara di definire tale voce di danno solo “ai fini della tutela dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”, così parendo differenziare l’indennizzo a fini previdenziali dal risarcimento che potrebbe concretamente consistere in una misura maggiore.
Ed infine, come preannunciato e, a modesta opinione dello scrivente, costituendo l’elemento di maggior criticità, l’orientamento maggioritario andrebbe a far riemergere quel diseguale trattamento, che gli intenti della riforma volevano invece appianare, tra un comune soggetto leso, che in giudizio ed al di fuori potrebbe pretendere il risarcimento dell’intero danno biologico provocatogli, ed il lavoratore, che si vedrebbe corrispondere quello stesso danno nel minore indennizzo erogato dall’ente. L’ipotesi di scuola è quella dell’incidente stradale costituente anche infortunio in itinere che, a seconda della sua qualificazione o meno come infortunio sul lavoro, farebbe ottenere al danneggiato due differenti entità risarcitorie.
Al contrario, la giurisprudenza è univoca nel richiedere per il riconoscimento dell’eccedenza risarcitoria l’allegazione e la prova del danno biologico differenziale concretamente provocato e l’informazione circa il quantum ricevuto precedentemente dall’INAIL, così da poter sulla base di tale somma calcolare la differenza ancora dovuta.
Nella categoria dei “danni complementari” risiedono invece tutte le voci non rientranti nel sistema assicurativo e regolate dalla normativa comune di responsabilità. Se in passato vi si potevano quindi annoverare i danni biologici inferiori al 6%, i danni patrimoniale conseguenti alle menomazioni inferiori al 16%, il danno esistenziale, il danno morale soggettivo da reato e quello fatto valere iure proprio dai superstiti le vittime, alla luce della sentenza delle Sezioni Unite n. 26972 del 11 novembre 2008 , il quadro richiede una rivisitazione in guisa da evitare una duplicazione dei risarcimenti dovuta alla contemporanea attribuzione del danno biologico e del danno morale (il secondo normalmente liquidato in percentuale rispetto al primo). Scardinando l’impianto valevole in passato, oggi sembrerebbe che l’intera area del danno non patrimoniale debba sottostare ai limiti della liquidazione del danno differenziale stabiliti dall’art. 10, dovendosi semmai compiere un’operazione di personalizzazione del danno biologico previsto dalle tabelle delle menomazioni.

II:
IL “DANNO TANATOLOGICO” ED I CONFINANTI “DANNO BIOLOGICO TERMINALE” E “DANNO CATASTROFICO”
1. Il danno da perdita della vita.
Fatte queste premesse in merito alla risarcibilità del danno alla salute, attualmente il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, pervenendo a soluzioni nient’affatto univoche, si concentra sui casi in cui l’altrui condotta illecita provochi lesioni all’integrità fisica del soggetto con esito letale: difatti, l’infortunio mortale non comporta un’automaticità del riconoscimento del danno biologico in favore degli eredi.
Di fronte all’evento morte gli operatori giuridici sono soliti riferirsi al cosiddetto “danno tanatologico”: spesso impropriamente utilizzata, declinata in variegati inquadramenti teorici, la locuzione anzidetta identifica il pregiudizio patito dalla vittima al suo diritto alla vita e, nel negarne la risarcibilità, la giurisprudenza costituzionale e di merito contestualmente ricorre a figure quali quella del danno biologico terminale o del danno catastrofico, quasi fictiones iuris volte ad assicurare comunque un ristoro al soggetto passivo dell’illecito.
Appare poi giusto preliminarmente evidenziare come l’infortunio fatale, dal punto di vista risarcitorio ed indennitario, coinvolga sia il soggetto perito, vittima primaria, sia le persone a lui legate, divenute vittime di riflesso. Esse, sotto l’espressione “danno dei congiunti”, possono pertanto fare valere i nocumenti sofferti iure proprio in nome di quell’affectio e quelli patiti iure hereditatis dalla vittima, nella dimensione non patrimoniale (che è ciò che qui interessa) del pregiudizio al bene salute o al bene vita e della sofferenza morale a tali lesioni collegata.
A protezione non solo dei beni dell’integrità e della solidarietà familiare – con riferimento rispettivamente alla vita quotidiana trascorsa dalla vittima insieme ai familiari ed alla vita matrimoniale, alla relazione tra parenti prossimi conviventi ed al rapporto parentale che si instaura tra genitori e figli – ma in una prospettiva di ampliamento della tutela giuridica anche a sofferenze fondate non su vincoli familiari ma su vincoli affettivi formalizzati, tra i superstiti vengono identificati quali legittimati al risarcimento del danno iure proprio, oltre ai congiunti fino ai nonni, ad esempio, i conviventi more uxorio o i componenti una relazione omosessuale . Invece il ristoro dei pregiudizi patiti direttamente dalla vittima può essere vantato entro determinati limiti e pro quota dagli eredi.
Orbene, fino ad ora la tesi negazionista della risarcibilità delle lesioni biologiche fatali patite dal defunto ha ruotato attorno a tre fondamentali argomentazioni. Il primo dei ragionamenti si basa sulla distinzione ontologica tra il bene-vita ed il bene-salute: l’esistenza rappresenta un valore ed ha un rilievo personalissimo, fruibile in natura solo ed esclusivamente dalla persona che ne è titolare e così solo da essa azionabile, di tal guisa che sarebbe impossibile porre in essere un risarcimento per equivalente una volta cessata la vita del danneggiato . La tesi, risalente agli anni ’90, è stata spinta fino a sostenere che, ogni qual volta si tratti del bene salute, la tutela risarcitoria possa essere accordata solo laddove vi sia identità tra colui che ha patito il nocumento e colui che ne invoca il ristoro per equivalente. Da che ne deriverebbe, se proveniente da soggetti diversi, l’irrisarcibilità di tutte le lesioni personali, ivi compreso il danno morale.
In secundis si rileva come l’individuo perda la capacità giuridica al momento della morte: la protezione accordatagli allora dall’ordinamento, nella forma del diritto al risarcimento, non è ancora attuale prima dell’evento morte stesso, ma successivamente non può sorgere, poiché non più esistente come soggetto di diritto .
Infine, ricollegandoci a quanto detto sopra, si ricorda che la tutela stabilita dal diritto civile si caratterizza per avere una funzione reintegrativa e riparatoria degli effetti pregiudizievoli provocati dall’illecito; ma, essendo il bene-vita intrinsecamente connesso al suo titolare, non è ammissibile né il risarcimento per equivalente, né un ristoro che giovi direttamente alla persona danneggiata e il risarcimento trasmesso agli eredi si ritroverebbe così ad assumere un ruolo prettamente sanzionatorio .
E, d’altro canto, si sottolinea come il soggetto ed i suoi congiunti siano tutelati non solo per mezzo del congegno risarcitorio, ma ben più efficacemente dall’altro ramo dell’ordinamento costituito dal diritto penale, le cui dovute e proporzionate pene apprestano la difesa necessaria di fronte alle lesioni di beni primari come la vita e la salute.
2. Il danno biologico terminale.
Nondimeno, il diretto precipitato della situazione descritta oltre ad essere paradossale reca con sé notevoli punti critici : per l’offensore risulterebbe maggiormente conveniente provocare l’altrui morte piuttosto che limitarsi a lederne l’integrità psicofisica, poiché solo in questo secondo caso, sebbene meno grave, si ritroverebbe successivamente gravato dal dovere di risarcire il danneggiato.
Come preannunciato, una struttura di tal fatta, ove le lesioni biologiche con conseguenze letali non giovano di alcun emolumento risarcitorio, è apparsa nell’immediato inadeguata ogni qual volta si fuoriesca dallo schema elementare dell’evento morte come conseguenza subitanea del fatto illecito.
La giurisprudenza ha quindi proceduto alla costruzione del cosiddetto “danno biologico terminale”, ovvero il danno alla salute percepito dal futuro defunto nell’intervallo tra la lesione e la morte. Esso non sarebbe altro che una declinazione del tradizionale danno biologico subìto dalla vittima, che, successivamente alla lesione inferta alla propria integrità psicofisica, sopravviva per un lasso di tempo più o meno lungo che abbia come epilogo la morte.
Il diritto al ristoro per tale tipologia di danno è idoneo ad entrare nel patrimonio del soggetto giuridico e ad essere quindi trasmesso agli aventi causa in seguito alla morte.
Cruciale è risultata la sentenza costituzionale n. 372/1994 , con la quale la Corte sostiene due fondamentali concetti: se il bene-vita ed il bene-salute sono ontologicamente distinti, le lesioni aventi esito fatale non possono ricondursi sempre e comunque al danno biologico, ma si necessita un proseguimento della vita del soggetto con menomazioni invalidanti per un lasso di tempo che faccia nascere in capo allo stesso il diritto al risarcimento, con evidente impossibilità in caso di morte immediata. Inoltre il nostro ordinamento accorda la tutela risarcitoria imperniandone oggetto e quantum sul concetto di perdita, ma nel momento in cui avviene l’evento morte il soggetto, non essendo più titolare di situazioni giuridiche soggettive, né può subirne la perdita, né può divenire titolare di diritti di credito ad essa conseguenti.
Da ciò deriva che, a differenza del caso di morte immediata, il decesso non subìtaneo, ma avvenuto successivamente al graduale peggioramento delle lesioni inferte all’individuo, è apprezzabile in quanto perdita come richiesto dai sistemi risarcitorio ed indennitario e dunque legittima la nascita di un diritto al risarcimento trasmissibile agli eredi iure hereditatis.
Lo snodo interpretativo ruota proprio attorno alla dilatazione temporale idonea a legittimare l’insorgenza del diritto e sul punto la casistica giurisprudenziale, in parte giustificata dall’incertezza del concetto dell’“apprezzabile durata di tempo”, è quanto mai vasta e variegata: è stato ad esempio escluso il decesso avvenuto alcuni minuti dopo , mezz’ora dopo , due ore dopo , cinque ore dopo , sei ore dopo , poche ore dopo ed invece riconosciuto come idoneo a radicare il diritto, se successivo di 24 ore , di 28 ore , di “qualche giorno” , di tre giorni , di nove giorni , di 33 giorni .
In quanto poi alla sua liquidazione, i parametri tipici del danno biologico risultano inadatti; difatti, se d’un canto l’inabilità temporanea si riferisce ad una lesione circoscritta nel tempo che si conclude col ritorno in piena salute, dall’altro l’invalidità permanente riguarda menomazioni destinate a protrarsi lungo l’intera vita della persona e non per un periodo piuttosto limitato avente come epilogo il decesso. Si procede pertanto al seguente adeguamento: mantenendo come base quanto previsto per l’inabilità temporanea, per ciascun giorno di permanenza in vita la monetizzazione è aumentata (secondo importi variabili), così da valorizzare l’intensità massima del danno alla salute, tale da non consentire alcun recupero .
Dunque, di fronte a lesioni alla salute che siano risultate fatali dopo un apprezzabile lasso di tempo, il giudice deve considerare sia la dimensione dei nocumenti psicofisici giornalieri, sia il fatto che essi abbiano condotto alla perdita della vita, effettuando quindi, nella determinazione del risarcimento/indennizzo, una personalizzazione equitativa .

3. Il danno catastrofico.
Se i casi di morte immediata appaiono irrisarcibili per i due ordini di ragioni anzidetti, relativi al venir meno della persona quale soggetto giuridico ed alla mancanza di una perdita giuridicamente apprezzabile, la giurisprudenza supera anche tale impasse valorizzando non la dimensione biologica del danno, ma quella morale.
Così che, ogni qualvolta tra l’infortunio e il decesso sia trascorso un arco di tempo ritenuto non sufficiente ai fini della nascita in capo al soggetto del diritto al risarcimento del danno biologico terminale, con un’ulteriore pindarica fictio iuris si configura il cosiddetto “danno catastrofico”, consistente nella sofferenza morale patita dalla vittima nella consapevolezza dell’imminenza della propria fine . Un danno psichico da agonia che, sebbene confinato temporalmente, è di massima intensità e gravità per la lucida percezione che accompagna la persona nelle conseguenze catastrofiche della lesione – e di ciò si dovrà tener conto in sede indennitaria e risarcitoria.
In particolare, le note Sezioni Unite San Martino hanno avallato tale paradigma, affermando che “una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesione e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione” e, proseguono, “viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura”.
Se il presupposto del risarcimento diviene la tragica sensazione del perimento della propria salute e della vicinanza al termine della vita, ciò comporta giocoforza l’irrilevanza dell’arco di tempo trascorso fra l’evento lesione e l’evento morte .
Stante la delicatezza del vulnus in discorso, la liquidazione non può avvenire applicando in maniera meccanica e miope quanto previsto nelle tabelle giurisprudenziali – che peraltro genericamente riguardano una casistica in cui il soggetto danneggiato sopravvive alla lesione – bensì è evidente la necessità di forte personalizzazione al caso concreto.

III:
IL DANNO TANATOLOGICO E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE N. 1361/2014
L’imperituro impianto così delineato, le cui radici si rinvengono in pronunce assai risalenti della Corte di legittimità , viene scardinato dalla recentissima sentenza n. 1361 del 24 gennaio 2014, con cui la Suprema Corte ci conduce pagina per pagina lungo il riconoscimento della risarcibilità del danno da perdita della vita.
Gli ermellini analizzano approfonditamente il poliedrico complesso di motivazioni a fondamento della tradizionale ed ormai granitica giurisprudenza negazionista, evidenziando i profili di problematicità che porterebbero a sposare la tesi contraria in un vero e proprio, apparente, significativo revirement.
La vicenda prende le mosse da un sinistro stradale, che, causando la morte della sig.ra P.G., ne induce i congiunti a lamentare fino in sede di legittimità il non riconosciuto ristoro del danno da morte propria, avvenuta dopo tre ore e mezza dal fatto.
Nei motivi del ricorso si precisa come il diritto alla vita, sebbene non espressamente menzionato dalla Carta fondamentale, debba comunque godere di una tutela a livello costituzionale – in forza degli artt. 27, 2, 13, 22 e 32 che, rispettivamente, vietano la pena di morte, garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo e tutelano sotto vari aspetti la salute e la dignità della persona – nonché a livello sovranazionale – rinvenibile nell’art. 62 della Costituzione Europea, la cui lettera stabilisce come “ogni persona ha diritto alla vita”.
La Corte si dedica in primis alla ricostruzione del sistema risarcitorio dei danni non patrimoniali all’esito delle famose Sezioni Unite di San Martino del 2008, per poi concentrarsi ampiamente sul diritto in trattazione, sgretolando le basi su cui l’orientamento tradizionale poggia, onde evitare interpretazioni favorevoli al reo che gli risparmino la sanzione civile anzidetta.
Per quanto riguarda l’obiezione riguardante la mancanza di capacità giuridica in capo al defunto ed il difetto di una conseguente perdita apprezzabile dall’ordinamento, sottolinea come la verificazione del decesso non sia mai istantanea rispetto all’evento lesivo. Ad eccezione dei casi di decapitazione e di spappolamento del cervello, infatti, la morte cerebrale avviene non immediatamente, ma si concretizza in una fattispecie a formazione progressiva che renderebbe possibile, in una porzione di tempo infinitamente piccolo, la nascita del diritto al ristoro trasmissibile agli eredi.
Ed a prescindere da supportazioni scientifiche, bensì da un punto di vista prettamente logico, il fatto illecito della lesione interviene prima della morte, mentre il soggetto è ancora in vita e può quindi acquisire tale diritto.
Prive di pregio sono poi le considerazioni fondate sulla diversità ontologica del bene-salute e del bene-vita: i danni ad essi provocati sono destinati ad intersecarsi e costituire un unicum nella lesione con esito fatale. Così che, se la morte immediata non merita la valutazione ed il risarcimento del pregiudizio alla salute, in maniera uguale non si dovrebbe procedere alla liquidazione del danno provocato da una morte avvenuta successivamente ad un apprezzabile lasso di tempo con la sola inabilità temporanea. In ossequio ad una più corretta analisi, le vittime delle lesioni mortali non dovrebbero ricevere una differente tutela in base al tempo di sopravvivenza, poiché ciò che è davvero rilevante non è la menomazione giornaliera fino al momento del decesso, quanto l’annichilimento del senso di vivere che essa comporta e che pregiudica il valore uomo in tutta la sua concreta dimensione.
Si anela quindi ad una liquidazione del risarcimento e dell’indennizzo che sia in grado di rappresentare in maniera unitaria il disvalore dell’illecito che conduce ad esiti fatali, senza l’utilizzo dell’inappropriato criterio dell’inabilità temporanea giornaliera.
In quanto poi alla critica fondata sulla funzione meramente reintegrativa e restitutoria attribuita alla sanzione civile – volta a ristabilire nel patrimonio del danneggiato la situazione antecedente ai pregiudizi provocati dall’illecito – la Cassazione ricorda come il risarcimento costituisca la forma minima di tutela , da accordare a maggior ragione ad un diritto avente un’importanza fondamentale ed imprescindibile come quello alla vita.
Inoltre, se è vero che qualora la liquidazione giovasse ad un soggetto diverso da quello direttamente danneggiato, la tutela acquisirebbe una funzione dal gusto sanzionatorio, la trasmissibilità agli eredi del credito derivante dalla lesione di beni non meno personali della vita, quali l’onore, la reputazione ed il nome, non parrebbe omogenea rispetto a tale paradigma.
I giudici di legittimità, nel ripercorrere l’evoluzione della giurisprudenza e delle dottrine succedutesi e l’elaborazione dei confinanti danno biologico terminale e danno catastrofale, non mancano di far valere un ulteriore profilo di incongruenza attinente a quest’ultima figura: difatti, se essa basa il diritto al risarcimento sulla sofferenza dovuta alla percezione della propria tragica condizione e quindi lo esclude laddove manchi una lucidità della vittima ed una agonia consapevole (ci riferiamo in particolare ai casi di coma immediato dopo l’evento dannoso), rendono dubbiosi i contestuali traguardi raggiunti dalla giurisprudenza circa la propagazione intersoggettiva dell’effetto dell’illecito tra padre defunto e neonato, o addirittura nascituro , nonché la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica dell’ente o della persona giuridica equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, quali l’immagine, il nome etc .
In definitiva, la sentenza, destinata ad avere portata storica ed un rilevantissimo impatto pratico, riconosce ex se il danno tanatologico – distinto dal danno alla salute, dal danno biologico terminale e dal danno morale catastrofico – affermando che “la morte ha infatti per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto. Non solo di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo, la vita, che tutto il resto racchiude. Non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze”. E, così argomentando, sostiene che il ristoro della sua perdita costituisca un’imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni conseguenza, ma che da ciò non derivi comunque un’ipotesi di danno punitivo, poiché la sua funzione sarebbe manifestamente compensativa.
Di fronte ad una giurisprudenza di legittimità e di merito avvaloranti l’atavica tesi della non ristorabilità del danno tanatologico, la Corte, con la pronuncia in esame, segna un punto decisivo di svolta tentando di soverchiare gli antichi escamotages del danno biologico terminale e del danno morale catastrofico, frutti di “acrobazie logiche e concettuali” volte semplicemente a compensare il mancato diretto riconoscimento del risarcimento del bene vita in favore della sfortunata vittima di un fatto illecito.
Essa si rende così mirata portatrice dell’odierno sentire sociale, il quale, ripudiando la totale assenza di rifusione per la perdita di un bene così primario e fondamentale, impone un capovolgimento delle elaborazioni ermeneutiche fino ad oggi sostenute.
L’invito è quello di non restare sordi a tale nuova coscienza collettiva ed a non trincerarsi dietro i tradizionali schemi, ma piuttosto superarli, affinché le categorie classificatorie, ancor più se di mera creazione giurisprudenziale, non divengano un aprioristico preconcetto o un limite all’ammissione della tutela civilistica verso diritti assoluti ed inviolabili che necessiterebbero primaria garanzia da parte dell’ordinamento.
Con la sentenza, gli ermellini affermano dunque, a ragione secondo la modesta opinione di chi scrive, la necessità che la perdita della vita derivante da fatto illecito altrui sia ristorata in sé e per sé, a prescindere dal collegamento a criteri quali l’apprezzabile lasso di tempo tra l’evento lesivo e la morte, ovvero l’agonia consapevole del proprio ineluttabile destino.
Così conclusa la disamina della sentenza n. 1361/2014, appare lecito chiedersi, sulla scorta di quanto detto circa il già avvenuto passaggio del sistema indennitario dal parametro della capacità lavorativa generica a quello areddituale delle menomazioni all’integrità psicofisica, se il continuo intersecarsi della materia lavoristica con la materia civilistica condurrà ad ulteriori evoluzioni anche in merito alla voce di danno in discorso, pur senza trascurare la peculiarità del settore ed il suo assetto appunto indennitario.
È indubitabile che la visione sia dei pratici che dei cultori di entrambe le aree del diritto abbia subito una mutazione progressista, concependo non più la persona come mera produttrice di reddito, ma come portatrice di valori, prima considerati irrisarcibili e non indennizzabili poiché insuscettibili di valutazione economica ed oggi invece assurgenti a centrale obiettivo di garanzia per l’ordinamento.
Certo è che nell’ottica di un percorso di sensibilizzazione e di possibile ampliamento delle voci coperte dall’assicurazione obbligatoria INAIL, assurge con tutto il suo carico di problematicità l’assenza di un sistema tabellare che consenta la liquidazione del danno tanatologico e quindi la quantificazione di un ristoro che appaia equo per la perdita del bene supremo ed indipendente da quello stabilito per il pregiudizio biologico, date le sue peculiarità e la sua autonomia. Ma quali i criteri idonei alla monetizzazione dell’essere umano?
Di fronte agli annuali mille casi di infortuni mortali sul lavoro fornitici dai dati attuali e non dimenticandoci che il legislatore, nell’approntare una qualsiasi riforma, così come i giudici, nella loro attività creatrice di diritto vivente, dovrebbero sempre tenere presente la funzione storica del diritto del lavoro di massima tutela della dignità del lavoratore subordinato, non resta che aspettare la chiarificazione delle Sezioni Unite (già investite della questione tramite l’ordinanza n. 5058 del 4 marzo di questo stesso anno) in merito alla definizione del quadro della risarcibilità dei danni non patrimoniali.

 

dott.ssa Laura Angela Lombardini

Redazione

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