“Evidente capacità di rallentare a dismisura la durata di tutti processi penali attualmente in corso”.
“Agevolare l’abuso del processo e legittimare le più varie tattiche dilatorie”.
“Direzione opposta a quella prescritta dall’art. 111 della Costituzione, il quale impone la ragionevole durata del processo”.
“Gravi e motivate ragioni di preoccupazione in ordine al funzionamento della giustizia penale”.
Queste sono solo alcune brevi ma efficaci espressioni contenute nella risoluzione approvata a larga maggioranza ieri dal Consiglio Superiore della Magistratura, con la quale viene duramente stroncato il ddl Lussana, meglio conosciuto come “processo lungo”.
Bocciatura secca, istantanea, inappellabile.
Il primo Presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, è ancora più critico, e sancisce lapidariamente la “morte del processo penale”.
Niente fiori, ma solo buone leggi.
Di seguito, il testo della risoluzione del CSM 7 settembre 2011:
Consiglio Superiore della Magistrature
Risoluzione sulle ricadute sul funzionamento del sistema giudiziario della disciplina proposta nel ddl n. 668/B
“Il disegno di legge n. 2567/S, approvato dal Senato il 29 luglio 2011 e trasmesso alla Camera il 1° agosto 2011, ove ha assunto il n. AC 668/B vedeva come primo firmatario l’On. Lussana ed altri ed aveva come unico obiettivo l’attuazione di un maggior rigore punitivo net processi per reati puniti con l’ergastolo, escludendo che per tali cast fossero applicabili i benefici previsti per il rito abbreviate.
Su tale iniziale ratio legis si é innestata una sostanziale riscrittura del regime processuale sulla prova che nulla ha in comune con l’originario intento e si caratterizza per l’evidente capacità di rallentare a dismisura la durata di tutti processi penali attualmente in corso, fatta eccezione solo per quelli per i quali sia stato già chiuso il dibattimento di primo grado.
La parte di maggior interesse dell’intervento attualmente proposto attiene alla modifica degli articoli 190, 495 e 238 bis del codice di procedura penale, tutti inerenti l’esercizio del diritto alla prova nell’ambito del processo e l’acquisizione probatoria.
Si tratta, dunque, di un intervento con dirette ricadute sul cuore dell’attività giudiziaria, in relazione al quale è necessario che il Consiglio formuli alcune considerazioni, nel solco, peraltro, di quanto ha gia avuto modo di evidenziare in altre precedenti delibere ed in particolare nella delibera del 23 luglio 2009 sul ddl n. 1440/S. Infatti gia nel citato ddl n. 1440 erano contenuti interventi sui punti oggetto del testo oggi in esame, con soluzioni per più aspetti analoghe a quelle odiernamente proposte.
Gli attuali tre commi dell’art. 190 c.p.p., rubricato “Diritto alla prova”, verrebbero modificati mediante una riscrittura radicale dei primi due commi ed una modifica del terzo.
Il testo proposto prevede che:
Le prove sono ammesse a richiesta di parte. L’imputato, a mezzo del difensore, ha la facoltà davanti al giudice di interrogare o fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a sua favore. Le altre parti hanno le medesime facoltà in quanto applicabili.
Il giudice provvede senza ritardo con ordinanza. A pena di nullità ammette le prove ad eccezione di quelle vietate dalla legge e di quelle manifestamente non pertinenti. La legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse d’ufficio.
I provvedimenti sull’ammissione della prova possono essere revocati, nei casi consentiti dalla legge, sentite le parti in contraddittorio”
Il cambiamento rispetto all’attuale normativa e’ profondo.
In particolare si vorrebbe introdurre una sorta di diritto potestativo insindacabile alla prova, escludendo ogni possibilità da parte del giudice di valutare la natura manifestamente superflua o irrilevante delle prove richieste imponendo una ammissione di qualsiasi prova che non risulti manifestamente non pertinente e dunque, nella prospettiva del proponente, patentemente estranea al thema decidendum.
Il senso dell’intervento e’ sostanzialmente quello di affidare alle parti la dinamica processuale, privando il giudice della possibilità di gestire l’andamento del processo in funzione di un accertamento processuale che si svolga secondo i canoni costituzionali della ragionevole durata.
Non solo, la norma prevede espressamente sanzione della nullità in caso di sua inosservanza; sebbene, non sia chiaro a che cosa sia riferita l’ipotizzata nullità, vi sono fondate ragioni per temere che essa risulti addirittura riferibile alla sentenza che conclude il giudizio, travolgendo cosi l’intera attività processuale.
Il CSM, gia, in occasione del parere reso con la delibera del 23 luglio 2009 sul ddl n. 1440/S, ebbe modo di rappresentare una Corte perplessità in merito alla prospettata limitazione dell’ambito di valutazione del giudice in ordine alla superfluitá ed irrilevanza delle prove richieste dall’imputato “Non è dato comprendere — si afferma nella delibera — quale effettiva lesione alla disponibilità delle parti ovvero al principio di formazione in contraddittorio delle prove possa comportare il consentire al decidente, in via immediata e preventiva, di eliminare tutte quelle prove che, in maniera manifesta, risultino ab initio inutili rispetto ai fatti integranti il thema decidendum.
L’indicata decisione, d’altro canto, appare sminuire la funzione giudicante e la discrezionalità rimessa al giudice in sede di ammissione delle prove, la quale, invece, opera senza un approfondito sindacato del merito, limitandosi all’esclusione delle sole prove palesemente superflue ai fini del giudizio. La soluzione normativa indicata determina una irragionevole delimitazione della discrezionalità connessa all’esercizio della funzione giudicante e un pesante limite al celere svolgimento del giudizio, la cui durata e’ inevitabilmente allungata con la reiterata assunzione di prove superflue, con connesse conseguenze dilatorie assai pericolose sulla decorrenza dei termini di durata delle misure cautelari e sui tempi di prescrizione dei reati”
Innumerevoli sarebbero gli esempi1 volti a dimostrare che la mancanza di un preventive vaglio sulla rilevanza e superfluità delle prove richieste delle parti, potrebbe determinare effetti paradossali, le conseguenze si rileverebbero assai negativamente sui gia dilatati tempi dell’accertamento processuale nei vari gradi di giudizio.
A ciò si aggiunga che, in ragione della modifica proposta sul terzo comma dell’art. 190 c.p.p., non sarebbe neppure possibile per il giudice intervenire successivamente attraverso la revoca delle prove ammesse, anche allorchè sia evidente la sopravvenuta superfluità in seguito all’istruttoria dibattimentale svolta.
Ed infatti, la proposta legislativa prevede anche un intervento sull’art. 495 c.p.p. rubricato “Provvedimenti del giudice in ordine alla prova”, laddove si modifica in particolare il 4° comma stabilendo sostanzialmente che il giudice può revocare con ordinanza le prove già ammesse solo se esse risultino anche “manifestamente non pertinenti” e non già, come attualmente, se esse si rivelino semplicemente superflue. Far dipendere la revocabilità dela prova ammessa dal contestuale ricorso della sua superfluità e della sua manifesta non pertinenza non ha senso sul piano tecnico e su quello sistematico.
Sul primo, una prova non pertinente non può essere né necessaria né superflua, queste essendo qualificazioni che attengono, appunto, soltanto alla prova pertinente.
Sul piano sistematico, appare poco plausibile che il giudice abbia un potere di sindacato sulle prove da assumere più esteso nella fase preliminare di ammissione della prova, quando ha una conoscenza limitatissima del processo (in tale sede potrebbe escludere soltanto quelle che, oltre ad essere manifestamente non pertinenti, siano anche superflue).
Ma questa scarsa plausibilità della disposizione difficilmente potrebbe giustificare una interpretazione correttiva, che inserisse implicitamente la disgiuntiva “o” in luogo della congiuntiva “e”. A questa operazione verosimilmente si allude, non senza qualche disinvoltura, quando si sostiene nel dibattito si questa riforma che il giudice potrebbe pur sempre in corso d’opera eliminare le prove superflue che ha dovuto ammettere. Si finisce, in tal modo, per confidare sul tanto biasimato “diritto giurisprudenziale”, senza preoccuparsi, tra l’altro, degli interminabili e giustificati contenziosi interpretativi di cui questa soluzione sarebbe foriera.
E’ dunque quantomeno opportuno che il legislatore faccia chiarezza precisando che il giudice può revocare la prova amessa “quando appare superflua o non pertinente.
Orbene, il risultato delle citate modifiche agli articoli 190 e 495 c.p.p. e quello della soppressione della superfluità come criterio di selezione delle prove, sia ai fini della ammissione, sia ai fini della successiva revoca del provvedimento di ammissione. E l’eliminazione del potere del giudice di escludere una prova per la sua palese superfluità determinerebbe l’obbligo di ammettere o di non revocare l’ammissione anche di prove funzionali ad una conoscenza già acquisita.
La norma appare quindi agevolare l’abuso del processo e legittimare le più varie tattiche dilatorie.
Il DDL interviene, inoltre, sull’art. 238 bis c.p.p., il quale consente l’acquisizione agli atti del processo, ai fini della prova, di sentenze irrevocabili, stabilendo che anche in tal caso “…resta fermo il diritto delle parti di ottenere, a norma dell’art. 190, l’esame delle persone le cui dichiarazioni sono state utilizzate per la motivazione della sentenza” acquisita. In sostanza le sentenze irrevocabili si continuerebbero ad acquisire, ma l’istruttoria dibattimentale svolta nei relativi processi dovrebbe essere in ogni caso interamente ripetuta, a semplice richiesta dell’imputato.
Una siffatta previsione si presenta intrinsecamente contraddittoria ed irrazionale, in quanto da un lato consente l’acquisizione delle sentenze irrevocabili ai fini della prova dei fatti accertati e dall’altro impone di svolgere nuovamente un’istruttoria sugli stessi fatti, sol che l’imputato lo chieda.
Peraltro, è evidente che l’eventuale esclusione di un adeguato filtro selettivo sull’acquisizione probatoria da parte del giudice non potrebbe che determinare un ulteriore e abnorme allungamento dei tempi del dibattimento penale.
In proposito va sottolineata ancora la portata preoccupante della norma transitoria prevista, che dispone l’applicazione di tutte le innovazioni indicate ai processi in corso in primo grado per i quali non sia chiuso il dibattimento. Ciò potrà determinare la necessità di far ricominciare daccapo tutti i processi in corso in primo grado at fine di consentire alle parti di avvalersi della nuova disciplina sul diritto alla prova.
L’intervento proposto si muove in direzione opposta a quella prescritta dall’art. 111 della Costituzione, il quale impone la ragionevole durata del processo e più in generale dalle esigenze suggente dalla concreta situazione della giustizia italiana, già caratterizzata da una durata eccessivamente lunga dei processi penali, unanimemente riconosciuta come la principale causa dell’attuale situazione di criticità del sistema. Inoltre si muove nella direzione di ampliare gli strumenti processuali suscettibili di incentivare il c.d. abuso del diritto.
Questo Consiglio ha gia avuto modo di sottolineare nella propria risoluzione del 6 aprile 2011 in tema di abbreviazione dei termini di prescrizione – da intendersi qui richiamata in quanto del tutto pertinente – che la Corte europea dei diritti dell’uomo già attualmente ha ripetutamente condannato l’Italia in relazione al diritto di ogni persona a che la sua causa sia esaminata entro un termine ragionevole.
Non può tacersi la portata dirompente che l’intervento in esame può avere in particolare nel coniugarsi con la vigente disciplina italiana in tema di prescrizione dei reati, ancor più se letto in combinato disposto con l’altro intervento legislativo esaminato nella risoluzione poc’anzi citata. Infatti, se con il ddl in esame (cd. processo lungo) viene dilatata la durata dei processi, con la riduzione dei termini di prescrizione vengono di fatto negate le condizioni per pervenire ad un accertamento dei fatti oggetto delle imputazioni in tempi ragionevoli, con ciò vanificando ogni tentativo di offrire un servizio di giustizia efficiente per i cittadini, nel rispetto del principio di uguaglianza e di legalità.
Ma la sinergia perversa tra la soppressione del vaglio di superfluità delle prove e l’istituto della prescrizione preannuncia una conseguenza persino più allarmante rispetto a quella denunciata dal sicuro aumento del numero dei processi abortiti per prescrizione; numero che già ora ci consegna un non invidiabile primato negli ordinamenti penali del mondo occidentale.
Il legittimo ed agevole perseguimento della prescrizione attraverso la pletorica assunzione di prove superflue, infatti, determinerebbe fatalmente una disincentivazione del ricorso ai riti alternativi; il conseguente spostamento di molti processi da questi al rito ordinario ne appesantirebbe a tal punto i ruoli, già ingestibili, da rendere la prospettiva della prescrizione non solo probabile, ma quasi certa; il ricorso dell’imputato ai procedimenti alternativi a quel punto diverrebbe rara evenienza autolesionistica; in definitiva si innesterebbe una spirale che condurrebbe all’implosione del sistema.
Infine, senza che quanto si dirà possa apparire come espressione di una posizione contraria del C.S.M. in ordine alla proposta (del resto presente nell’originario disegno di legge On. Lussana) di escludere la possibilità di rito abbreviato in caso di reati puniti con l’ergastolo, va ricordato che l’art. 2 del DDL proposto contiene una singolare statuizione: dopo avere soppresso il secondo ed il terzo periodo dell’art. 442 c.p.p. ove si disponeva lo sconto di pena per il rito abbreviato nei processi per delitti puniti con l’ergastolo, si introduce all’art. 442 c.p.p. un comma 2 bis, il quale prevede che “2-bis. Quando, tenuto conto di tutte le circostanze, deve essere irrogata la pena dell’ergastolo non si fa luogo alla diminuzione di pena prevista dal comma precedente”.
Orbene, una tale disposizione, la quale assegna al giudice la facoltà di non concedere alcuna diminuzione di pena per la scelta del rito se ritenga che le circostanze impongano l’ergastolo, potrebbe non risultare in linea con la natura “premiale” del giudizio abbreviato, riconoscibile in alcuni percorsi motivazionali della giurisprudenza costituzionale3, in cui sembra delinearsi un “sinallagma” fra consenso dell’imputato ad essere giudicato sulla base di una prova formatasi al di fuori dal contraddittorio ed il beneficio previsto per il medesimo in termini di riduzione della pena.
In definitiva, non possono che esprimersi gravi e motivate ragioni di preoccupazione in ordine al funzionamento della giustizia penale alla luce delle possibili modifiche proposte nel citato disegno di legge.
Roma, 7 settembre 2011″