L’esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta

Redazione 14/02/11
Una professoressa di lettere è stata condannata insieme al marito, neurologo, per esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta nello studio di quest’ultimo. Ma, aggiunge, la Cassazione, non c’è stata truffa a danno dei pazienti.

Lo ha stabilito la seconda sezione penale della Corte di Cassazione (presidente Sirena, relatore Pagano), con sentenza numero 4641 del 9 febbraio scorso.

Il fatto

L’imputata (laureata in lettere con diplomi nel settore della naturopatia), collaboratrice nello studio del marito (medico di base, specialista in neurologia) aveva con il consenso ed il concorso del titolare dello studio, svolto attività proprie della professione di psicoterapeuta.

La decisione

La Cassazione ha ritenuto che:

“Sul concorso … la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che risponde, a titolo di concorso, del delitto di esercizio abusivo di una professione, chiunque consenta o agevoli (come accertato nel caso concreto) lo svolgimento da parte di persona non autorizzata ad un’attività professionale, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato (Cass. 9.4.09 n. 17893, depositata 29.4.09, rv. 243657).

Nella concreta fattispecie è rimasto accertato che il marito ha consentito  nel proprio studio professionale attività di psicoterapeuta a persona non autorizzata (Cass. VI 16.1.73 n. 2268, depositata 20.3.73, rv. 243657). Nè le doglianze possono essere riferite all’elemento soggettivo stante l’accertato dolo generico comprovato dall’intervento diretto sui querelanti per essere seguiti con sedute psicologiche dalla moglie …”

In sede di ricorso per Cassazione, era stato evidenziato che “la carenza di titoli professionali era nota a tutti i frequentatori dello studio medico, stante anche la corretta applicazione dei ruoli riportata nella “brochure di studio“.

La Cassazione ha accolto questa censura, così motivando:

“I ricorsi devono trovare accoglimento con riferimento al ritenuto delitto di truffa in ordine al quale non sussiste l’elemento costitutivo dell’induzione in errore con artifici o raggiri diretti ad effettuare le sedute psicologiche.

Ciò in quanto è comunque accertato che le parti lese presentavano problemi inerenti la sfera psicologica o comportamentale, tali da richiedere eventuale idonea terapia mentre la convinzione delle stesse di trovarsi davanti a persona qualificata non è stata conseguente ad esibizione di titoli inesistenti o da esplicite affermazioni ma da un comportamento di fatto non specificamente rivolto a far credere l’esistenza di titoli professionali da parte della moglie del dottore”.

Redazione

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