L’abuso del diritto e il nuovo corso della pregiudizialità amministrativa

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Quali sono i passaggi salienti della fondamentale sentenza n. 3 del 23 marzo 2011 con la quale il Consiglio di Stato ha ridefinito la portata della “pregiudizialità amministrativa”?

La decisione dell’Adunanza Plenaria, com’è noto, si spinge fino ad affermare come il previo esperimento del ricorso impugnatorio da presupposto necessario dell’azione risarcitoria passa a elemento (quasi) decisivo per ammetterne la fondatezza.

A ben vedere, la pronuncia, nel fare il punto sull’annosa questione della pregiudizialità amministrativa nelle cause di risarcimento dei danni per illegittima/illecita condotta della Pubblica Amministrazione, dalla storica sentenza della Corte di Cassazione – Sezioni Unite n. 500 del 22 luglio 1999 e fino alla novella introdotta dal Codice del processo amministrativo (artt. 30 e ss.), ha delineato i parametri di valutazione cui deve attenersi il Giudice Amministrativo nei casi in cui sia stata trascurata, nel termine decadenziale. l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi fonte del danno ingiusto patito.

È stato pertanto premesso che, nell’ambito di un giudizio risarcitorio relativo alla liceità dell’agere amministrativo, la questione dell’omessa impugnazione del provvedimento non può più essere affrontata in termini processuali come condizione di ammissibilità della domanda, ma deve essere valutata in termini sostanziali, con la conseguenza che l’indagine compiuta dal Giudice Amministrativo deve spostarsi dal terreno processuale al piano sostanziale, pervenendo ad un giudizio sulla fondatezza della domanda risarcitoria in chiave prettamente civilistica.

Nelle argomentazioni del Supremo Consesso assume rilievo decisivo la regola secondo cui, a mente del disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, non sono risarcibili i danni evitabili con un comportamento diligente del danneggiato, con ciò mutuando dalla giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione l’indirizzo volto a sanzionare le condotte processualmente scorrette attraverso le categorie del divieto dell’abuso del diritto, della clausola di buona fede e dell’exceptio doli generalis.

Nello specifico, la sentenza in commento subordina il giudizio sulla fondatezza della domanda risarcitoria alla previa verifica se la decisione di non avvalersi dello strumento impugnatorio sia frutto di un’opzione discrezionale ragionevole ovvero se tale scelta sottenda uno scorretto utilizzo degli strumenti di tutela apprestati dall’ordinamento.

È di tutta evidenza come una tale verifica vada a toccare nel profondo proprio le scelte strategiche degli avvocati nell’esperimento della loro attività difensiva, giungendo a “criticare” le valutazioni che nello svolgimento del proprio mandato l’avvocato segue, oltre che in termini teorico-giuridici, in relazione alla contingenza del caso concreto, alla prassi seguita dagli uffici pubblici ed alla tempistica dei lavori nelle aule giudiziarie.

Ciò detto, appare apprezzabile la ricognizione operata dall’Adunanza Plenaria sull’art. 1227, comma 2, alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost.

I giudici di Palazzo Spada ci ricordano che il creditore, ancorché vittima dell’illecito, è tenuto ad una condotta positiva (cd. controazione) tesa ad evitare o a ridurre il danno. Obbligazione cooperativa e mitigatrice del creditore che, tuttavia, incontra il limite rappresentato dalla soglia del c.d. apprezzabile sacrificio.

Il danneggiato, infatti, è tenuto ad agire diligentemente per evitare l’aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose. L’obbligo di cooperazione gravante sul creditore, espressione del dovere di correttezza nei rapporti fra gli obbligati, non comprende, pertanto, l’esplicazione di attività straordinarie o gravose attività, ossia un “facere” non corrispondente all’ id quod plerumque accidit.

Proprio su tale limite si incentra la riflessione dell’Adunanza Plenaria, al fine di chiarire se nel novero dei comportamenti esigibili dal destinatario di un provvedimento lesivo sia sussumibile, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., anche la formulazione, nel termine di decadenza, della domanda di annullamento, quante volte l’utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio sarebbe stata idonea, secondo il ricordato paradigma della causalità ipotetica basata sul giudizio probabilistico, ad evitare, in tutto o in parte, il pregiudizio.

Ciononostante, l’indirizzo interpretativo prevalente, secondo cui il comportamento operoso richiesto al creditore non comprenderebbe l’esperimento di un’azione giudiziaria, sia essa di cognizione o esecutiva, trattandosi di attività per definizione complessa e aleatoria, come tale non esigibile in quanto esplicativa di una mera facoltà, dall’esito non certo, viene sottoposto a rivisitazione.

In tal senso, il principio dell’insindacabilità delle scelte giudiziarie, al di là dei limiti e dei divieti puntualmente stabiliti, deve essere bilanciato proprio dai postulati, vigenti nel nostro ordinamento, del divieto dell’abuso del diritto, della clausola di buona fede e dell’exceptio doli generalis.

Prendendo le mosse dal generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto, e siccome promulgato dalla sentenza della Cassazione, sezioni unite, 15 novembre 2007, n. 23726 (in tema di indebito frazionamento giudiziale contestuale o sequenziale di un credito unitario), l’Adunanza Plenaria giunge ad affermare che la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo, nel termine decadenziale, integra una condotta contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, e si risolve in abuso del processo ostativo all’esame della domanda.

In altre parole, l’obbligo di cooperazione di cui al comma 2 dell’art. 1227 c.c., il canone di buona fede ex art. 1175 c.c. ed il principio costituzionale di solidarietà, conducono a rilevare che anche le scelte processuali di tipo omissivo possono costituire in astratto comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua di un c.d. giudizio di causalità ipotetica, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno.

In definitiva, la mancata proposizione del ricorso per annullamento va apprezzata nel quadro di una valutazione più ampia – oggi recepita dagli artt. 30 e 124 del codice del processo amministrativo oltre che dall’art. 243 bis del codice dei contratti pubblici – del comportamento complessivo della parte in seno al quale detta omissione processuale si colloca.

In quest’ottica, il Giudice Amministrativo è tenuto a ponderare la rilevanza eziologica spiegata dal mancato utilizzo di rimedi e di condotte che, non implicando rilevanti costi e oneri, avrebbero potuto limitare se non addirittura elidere l’effetto pregiudizievole prodotto dal provvedimento illegittimo, e ciò appunto sulla premessa che l’attivazione del rimedio dei ricorsi amministrativi o la proposizione di tempestive istanze volte a sollecitare la rimozione o la modificazione in autotutela del provvedimento illegittimo, risultano comportamenti esigibili in quanto idonei ad incidere in senso favorevole sul rapporto amministrativo oggetto di valutazione.

Eppure, la pregevole ricostruzione operata dall’Adunanza Plenaria non sembra, a parere di chi scrive, immune da critiche. E ciò proprio nella parte in cui, soffermandosi sulla valenza dei rimedi esperibili per il tramite della giustizia amministrativa (il ricorso per annullamento del provvedimento amministrativo se del caso accompagnato con la richiesta incidentale di misure cautelari), si afferma che la tecnica di tutela demolitoria si pone come lo strumento ottimale “al fine di raggiungere gli obiettivi della tutela specifica delle posizioni incise e della prevenzione del danno possibile”.

Eppure, la pratica quotidiana non consente di giungere a tale conclusione.

A ben vedere, nel giudizio prognostico sull’efficienza del rimedio demolitorio si pongono variabili e condizioni affatto trascurabili, il più delle volte originate proprio dalle intime contraddizioni del sistema normativo.

Si pensi, in tema di processo amministrativo sui contratti pubblici, di esperimento del ricorso giurisdizionale avverso una illegittima aggiudicazione definitiva, nell’ipotesi in cui la richiesta incidentale di sospensione venga rigettata. In tal caso, alla stregua dell’art. 11, comma 10-ter, D. Lgs. n. 163/2006 (siccome introdotto dal d.lgs. n. 53 del 2010), “L’effetto sospensivo sulla stipula del contratto cessa quando, in sede di esame della domanda cautelare, il giudice si dichiara incompetente ai sensi dell’articolo 14, comma 4, del codice del processo amministrativo, o fissa con ordinanza la data di discussione del merito senza concedere misure cautelari o rinvia al giudizio di merito l’esame della domanda cautelare, con il consenso delle parti, da intendersi quale implicita rinuncia all’immediato esame della domanda cautelare”.

È evidente che l’esisto negativo della richiesta cautelare, affrontata dal Giudice Amministrativo in sede di delibazione squisitamente sommaria, può condizionare irreparabilmente la tutela apprestata al privato, con conseguente definitiva compromissione del suo interesse legittimo.

Si pensi ancora all’ipotesi in cui, pur a fronte di un giudicato favorevole, la Pubblica Amministrazione non dia corretta ottemperanza alle statuizioni del Giudice Amministrativo, o ancora alla difficoltà di formulare in sede di ottemperanza la richiesta di risarcimento, oltre che per i danni verificatisi in seguito alla formazione del giudicato e a causa del ritardo nella esecuzione della pronuncia, anche per i danni riferibili al periodo precedente al giudicato (possibilità oggi consentita dal Codice del processo amministrativo, ma in ogni caso aggravata dai tempi di svolgimento del processo di cognizione).

In tal senso, la decisione di non far leva sullo strumento impugnatorio è frutto di un’opzione discrezionale ragionevole e non sindacabile, non solo quando l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista, ma anche, e soprattutto, in generale, non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione, laddove, per riprendere le parole della pronuncia in commento “il mezzo dell’annullamento non possa soddisfare, in termini reali, l’aspirazione al conseguimento del bene della vita desiderato”.

Se è vero, pertanto, che le dette evenienze, ostative al soddisfacimento in natura della posizione azionata, possono maturare nel corso del giudizio in guisa da produrre la concentrazione in itinere della domanda sul solo profilo del risarcimento, è altrettanto vero che, in casi come questi, la tecnica di tutela demolitoria implica, per il privato, costi ed impegno superiori a quelli richiesti per la tecnica risarcitoria, con ogni evidente superamento della soglia del c.d. apprezzabile sacrificio e non esigibilità dell’opzione processuale non praticata.

Stefano Bertuzzi

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