L’abbandono dei rifiuti è un reato anche in caso di attività economica di fatto

Michele Nico 25/02/15
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Con la sentenza n. 52773/2014 la Corte di Cassazione, Sez. III, conferma un orientamento rigoroso in tema di reati per illecita gestione dei rifiuti, in coerenza con i principi generali del diritto comunitario che, assegnando priorità assoluta alla tutela della salute umana e dell’ambiente, contrastano con vigore gli effetti nocivi del trattamento e del deposito non autorizzato dei rifiuti.

Nella causa in esame, due soggetti sono stati condannati dalla Corte di appello per aver effettuato in concorso tra loro – il primo quale conducente, il secondo quale titolare della società proprietaria dell’automezzo – il trasporto di materiale florovivaistico di scarto in assenza di autorizzazione, depositando poi tali rifiuti “verdi” in area demaniale.

La Cassazione conferma in toto la condanna dei ricorrenti sulla base di alcuni principi di diritto, che, nel caso di specie, inducono a ravvisare un’ipotesi di abbandono dei rifiuti e il correlativo reato previsto dall’art. 256 del dlgs 152/2006 (codice dell’ambiente).

La Corte rileva che la violazione penale sancita per la gestione non autorizzata di rifiuti trova applicazione anche “ai titolari di imprese ed ai responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee” (secondo comma dell’art. 256), mentre se l’autore di tale abbandono non riveste le suddette qualità scatta una mera sanzione amministrativa, per la presunzione che l’abbandono di rifiuti posto in essere indipendentemente da un’organizzazione d’impresa comporti un minor rischio di inquinamento ambientale.

Con la decisione in esame il collegio avvalora una lettura estensiva del disposto sopra citato, sostenendo che:

a)       i soggetti qualificati indicati dalla norma (“titolari di imprese” e “responsabili di enti”) non sono esclusivamente coloro che effettuano le tipiche attività comprese nella filiera dei rifiuti, dacché la norma è rivolta a qualsiasi impresa con le caratteristiche di cui all’art. 2082 c.c. o a qualsiasi ente di diritto;

b)       per i medesimi soggetti non occorre poi fare riferimento a “una formale investitura, assumendo rilievo, invece, la funzione in concreto svolta”, in linea con una pacifica giurisprudenza (Cassazione, Sez. III, sentenze n. 19207/2008, n. 35945/2010 e n. 24466/2007);

c)       di conseguenza, il reato in questione può configurarsi anche nell’ambito di un’attività economica esercitata di fatto, a prescindere da una qualificazione formale dell’attività medesima.

Parimenti, sotto il profilo oggettivo, un’analoga interpretazione estensiva viene accolta dalla Sezione III con riferimento al concetto di rifiuto, individuato dal legislatore come “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi” (art. 183, primo comma, del dlgs 152/2006).

A questo riguardo il collegio sostiene che è da ritenersi “inaccettabile ogni valutazione soggettiva della natura dei materiali da classificare o meno quali rifiuti”, dovendosi piuttosto assumere che un rifiuto sia qualificabile come tale “sulla scorta di dati obiettivi che definiscano la condotta del detentore”.

Sulla base di queste chiavi di lettura, il deposito incontrollato di rifiuti, ancorché non pericolosi, dà luogo alla fattispecie criminosa ex art. 256 del dlgs 152/2006, per cui la Corte rigetta il ricorso e conferma la condanna pronunciata dal giudice dell’appello.

Michele Nico

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