Il rapporto della Corte dei conti sulla finanza pubblica e gli interventi del governo

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II Rapporto 2012 sul coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti, approvato dall’adunanza delle Sezioni riunite in sede di controllo del 28 maggio 2012 (DEL.14/CONTR/12), offre un quadro abbastanza definito della complessa situazione della gestione della finanza pubblica e fornisce importanti indicazioni a Governo e Parlamento per l’individuazione degli ambiti della Pubblica Amministrazione nei quali intervenire.

Sono risultati che chiariscono e smentiscono alcuni luoghi comuni che si sono affermati negli ultimi tempi dai “paladini” della lotta agli sprechi, mettendo in luce i risultati raggiunti proprio da quelle amministrazioni locali che tanto semplicisticamente venivano indicati come i primi destinatari dei tagli e delle soppressioni auspicati a gran voce.

Vediamo i punti essenziali del rapporto.

I risultati raggiunti – il taglio degli investimenti dello stato

La percezione di una notevole e quasi inattesa efficacia dei provvedimenti di contenimento della spesa è confermata, in primo luogo, dall’esame dei risultati conseguiti nel controllo della dinamica delle spese delle amministrazioni centrali e, in particolare, dello Stato. Al netto degli interessi e dei trasferimenti alle amministrazioni locali, le spese dello Stato risultano diminuite, nel biennio 2010-2011, di circa il 6 per cento. Uno sforzo di contenimento di grande rilievo, anche se del tutto sbilanciato nella composizione: ad una riduzione di meno del 3 per cento delle spese primarie correnti fa, infatti, riscontro la caduta delle spese in conto capitale del 26 per cento.

Il contributo degli enti locali

Note senza dubbio positive si traggono anche dalla valutazione della disciplina di bilancio applicata al livello delle Amministrazioni locali, attraverso un progressivo affinamento degli strumenti di coordinamento. Nel consuntivo del 2011, il contributo degli Enti territoriali all’obiettivo generale di indebitamento è stato, anche se di poco, migliore delle attese: il disavanzo si è arrestato allo 0,3 per cento del Pil. Per il secondo anno consecutivo si sono ridotte le uscite complessive. Un andamento dovuto ancora alla caduta della spesa in conto capitale, ma anche ad una spesa corrente che, per la prima volta dalla metà degli anni novanta, presenta un risultato in flessione dell’1,2 per cento.

Gli organismi partecipati

Secondo la banca dati della Corte (che non comprende tutte le regioni a statuto speciale), sono oltre 5.000 gli organismi partecipati (aziende, consorzi, fondazioni, istituzioni, società) nei 7.200 enti locali censiti. Si tratta, in gran parte, di organismi costituiti in forme societarie, di cui quasi la metà operante nel settore delle local utilities. Le società hanno in media circa 80 addetti e 30 gli organismi non societari. Oltre un terzo delle società rilevate ha chiuso in perdita uno degli esercizi compresi nel triennio 2008/2010. Nella grande maggioranza dei casi, le società hanno avuto l’affidamento diretto (per un valore della produzione di quasi 25 miliardi), indice che la gestione è solo formalmente attribuita ad un soggetto esterno, considerato il rapporto organico che esiste tra ente affidante e società in house. A tali soggetti è riferibile un indebitamento consistente (quasi 34 miliardi), in crescita nell’ultimo triennio di oltre l’11 per cento.

La sanità

Anche la gestione della spesa sanitaria ha presentato, nel 2011, risultati migliori delle attese. A consuntivo le uscite complessive (112 miliardi) sono state inferiori di oltre 2,9 miliardi al dato previsto e riconfermato, da ultimo, lo scorso dicembre, nel quadro di preconsuntivo contenuto nella Relazione al Parlamento. Per la prima volta, la spesa sanitaria ha ridotto, seppur lievemente, la sua incidenza in termini di Pil, scendendo dal 7,3 per cento del 2010 al 7,1.

Nonostante i progressi evidenti nei risultati economici, tuttavia, il settore sanitario continua a presentare fenomeni di inappropriatezza organizzativa e gestionale che ne fanno il ricorrente oggetto di programmi di taglio della spesa. L’emergenza economico finanziaria non può consentire di considerare indenni da possibili interventi correttivi alcuno dei settori della spesa pubblica. E’ necessario, però, interrogarsi su alcuni aspetti di fondo e rimuovere alcune evidenti distorsioni nella rappresentazione che, a volte, viene data del funzionamento del comparto sanitario. E’ indubitabile che quella sperimentata in questi anni dal settore sanitario rappresenti l’esperienza più avanzata e più completa di quello che dovrebbe essere un processo di revisione della spesa. Seppur non senza contraddizioni e criticità (ne sono un esempio i frequenti episodi di corruzione a danno della collettività denunciati nel settore).

Il costo dei dipendenti pubblici

I redditi da lavoro dipendente segnano, nel 2011, una riduzione che risulta superiore alle attese e che fa seguito ad un rallentamento in atto già da anni, se si considera come, rispetto alle previsioni avanzate all’inizio della legislatura, le retribuzioni delle amministrazioni pubbliche si collochino ben 13 miliardi più in basso. Un risultato che evidenzia l’efficacia delle numerose misure di controllo della dinamica retributiva e di razionalizzazione e riorganizzazione degli organici (soprattutto nel comparto scolastico) adottate con il D. L. n. 112/08 e con il D. L. n. 78/10.

La crescita e l’imposizione fiscale

La scelta di accelerare il riequilibrio dei conti attraverso l’aumento della pressione fiscale, si pone, poi, in contraddizione con gli indirizzi di riordino del sistema tributario italiano, ispirati a finalità di maggiore equità distributiva. L’originale intonazione redistributiva, recepita nel disegno di legge delega per la riforma fiscale ed assistenziale del luglio 2011, è risultata pressoché interamente accantonata. Il 2011, dunque, ci ha consegnato la realtà di un sistema impositivo ancora distante dal modello europeo: segnato dalla coesistenza di un’elevata pressione fiscale e di un elevatissimo tasso di evasione. Si è riusciti a ridurre (imposizione sui consumi), e, sotto altro profilo, ad invertire (imposizione sul patrimonio), il differenziale negativo evidenziato dal nostro paese, senza poter tuttavia, intaccare, in misura decisiva, il differenziale in eccesso nella pressione fiscale complessiva, in generale, e nella tassazione dei redditi da lavoro e di impresa, in particolare.

Le province

L’obiettivo programmatico riferito alle 100 province soggette al Patto era nel 2011 particolarmente impegnativo: era richiesto un avanzo di 35,2 milioni, risultato che è pienamente raggiunto a fine anno con un risparmio oltre alle attese per circa 147 milioni. Il saldo di parte corrente genera un avanzo di 1,1 miliardo, mentre il saldo di cassa della parte capitale mostra un disavanzo di 939 milioni.

Solo una provincia non rispetta il proprio obiettivo per 11,6 milioni.

Le province conseguono dunque un risultato positivo, anche a fronte di un obiettivo più oneroso rispetto agli esercizi precedenti: il saldo programmatico per il 2011 richiedeva, infatti, non più un contenimento del disavanzo, bensì la realizzazione di un saldo positivo.

L’andamento nel triennio 2009-2011 delle principali voci che concorrono alla verifica del Patto di stabilità registra in tutto il periodo una flessione nella gestione di parte corrente, sia per le entrate che per le spese.

Solo apparente l’inversione di tendenza della spesa in conto capitale netta nell’ultimo biennio (+3,4 per cento): i pagamenti per spesa in conto capitale, seppure in modo più contenuto rispetto al biennio 2009-2010, continuano ad essere in calo anche nel 2011 (-12,8 per cento). La ripresa dei pagamenti netti è, infatti, solo l’effetto della espansione dell’area di spesa soggetta ai vincoli del patto rispetto all’anno precedente, e non rappresenta un effettivo cambio di direzione nel trend degli investimenti delle province.

Quali dunque i possibili interventi?

La riduzione delle partecipazioni

Ricorda il rapporto della Corte dei Conti che “il quadro normativo prevede un progressivo ritrarsi del fenomeno partecipativo, soprattutto dai settori che non rappresentano servizi di interesse generale, dove maggiormente si concentrano performance negative.

Peraltro, la necessità che la spesa pubblica si riposizioni su livelli inferiori e su allocazioni più efficienti rispetto al passato rende urgente rivedere presupposti e finalità che hanno determinato l’intervento pubblico in settori economici non di interesse generale o caratterizzati da gestioni negative.

La revisione del perimetro dell’intervento pubblico diventa, pertanto, operazione necessaria, non solo ai fini di riduzione della spesa, ma anche a quelli di efficientamento dell’azione pubblica.

Un percorso che si presenta particolarmente impegnativo e ancora in gran parte da percorrere: nell’esame dei conti degli enti locali è frequentemente rilevata la mancata attivazione delle procedure per addivenire alla dismissione delle società partecipate, alla cessazione delle gestioni anomale dei servizi pubblici locali, alla messa in liquidazione delle società strumentali o di servizi caratterizzate da gestioni antieconomiche.

Tenuto conto che oltre il 60 per cento delle società sono partecipate da enti sotto i 30.000 abitanti, si coglie il rilievo dell’obbligo di dismissione delle partecipazioni societarie, previsto con la manovra del 2010 (art. 14, comma 32 del DL n. 78/2010).

L’estensione del ricorso ad affidamenti diretti, poi, dà la dimensione dell’impatto che la nuova disciplina di apertura al mercato, con un generalizzato ricorso alla gara, avrà sul comparto. Non si deve, infine, trascurare che la mancata previsione di vincoli posti al debito delle società partecipate può aver favorito forme di abuso dello strumento societario per ricorrere a finanziamenti non consentiti alle amministrazioni di riferimento”.

Le auspicabili modifiche al patto di stabilità

Occorre adottare delle misure urgenti per la ripresa economica, pagare le imprese e dare lavoro, attraverso una modifica dei vincoli del patto di stabilità ripropone, che impone ancora, quale parametro di riferimento, il saldo finanziario tra entrate finali e spese finali (al netto delle riscossioni e concessioni di crediti), calcolato in termini di competenza mista (assumendo, cioè, per la parte corrente, gli accertamenti e gli impegni e, per la parte in conto capitale, gli incassi e i pagamenti), con la conseguenza di vincolare e limitare, oltre agli impegni di spesa corrente, anche i pagamenti in conto capitale, cioè in particolare gli investimenti che per gli Enti Locali si traducono nella manutenzione dei luoghi pubblici, con particolare riguardo a viabilità, scuole, reti idriche, edilizia residenziale pubblica, mobilità sostenibile e messa in sicurezza del territorio

Nel resto d’Europa si parte dalle città per la crescita, in Italia con le attuali regole del patto di stabilità stiamo bloccando proprio le spese per investimenti anche perché il risultato paradossale è che le amministrazioni si trovano alla fine da una parte con soldi bloccati in cassa che non si possono spendere per il rispetto del patto e dall’altra si vedono costretti ad aumentare le tasse, applicando al massimo le aliquote dei tributi locali.

Un allentamento del Patto di stabilità per i Comuni e le Province permetterebbe invece di mettere in moto opere medio piccole, grazie alle quali verrebbe alimentata la piccola e media impresa italiana, in particolare nel settore dell’edilizia e del suo indotto, con immediati effetti benefici sul piano occupazionale evitando il ricorso agli ammortizzatori sociali.

Al Senato è stata approvata una mozione che impegna il governo ad adottare “con sollecitudine le più opportune modifiche alle norme che regolano i vincoli del Patto di stabilità per i Comuni e le Province, allo scopo di rafforzare, nel rispetto dei limiti di bilancio e in linea con le recenti posizioni emerse in sede comunitaria, le iniziative per il sostegno alla crescita economica del Paese”.

Nel testo approvato si impegna inoltre il governo “a creare una corsia preferenziale per l’utilizzo dei fondi residui passivi per la spesa in conto capitale da impegnare nella manutenzione dei luoghi pubblici, con particolare riguardo a scuole, reti idriche, edilizia residenziale pubblica, nella mobilità sostenibile e nella messa in sicurezza del territorio; a prevedere l’esclusione dal Patto di stabilità per gli enti locali virtuosi beneficiari di finanziamenti nazionali ed europei per opere infrastrutturali, della quota di cofinanziamento dell’opera a proprio carico, al fine di sbloccare numerosi programmi di investimento attualmente fermi in ragione dei vincoli di finanza pubblica; a semplificare le procedure burocratiche degli enti locali, e dei relativi tempi di autorizzazione, per la realizzazione dei progetti di investimento nei territori e a rafforzare il livello di autonomia finanziaria dei Comuni, portando a conclusione la riforma prevista dalla legge 41/2009 in materia di federalismo fiscale”.

Appare dunque necessario rimodulare i vincoli del patto di stabilità interno, che valgono rigidamente per i saldi di finanza pubblica statale, al fine di premiare gli enti più virtuosi e non comprimere eccessivamente gli investimenti, che possono avere non solo funzione anticiclica,  ma costituire un’importante massa d’urto, tenendo anche conto del fatto che, a differenza dei pur essenziali interventi infrastrutturali di grande rilievo, essi rappresentano somme immediatamente spendibili e quindi hanno un impatto immediato.

Le opere medio-piccole (realizzate, nella gran parte dei casi, dai comuni e dalle province) producono un effetto moltiplicatore sul sistema economico e sull’occupazione molto più elevato delle grandi infrastrutture e distribuito in modo diffuso sul territorio.

Le più recenti manovre imposte ai Comuni e alle Province hanno avuto effetti per gran parte sulle spese in conto capitale, bloccando o rallentando i pagamenti di opere già realizzate o in corso di realizzazione.

Come spesso sottolineato in molteplici documenti delle associazioni rappresentative degli Enti locali, ANCI e UPI, molti Enti per rispettare il patto di stabilità interno sono costretti a non ottemperare alle obbligazioni già assunte con soggetti esterni, con grave pregiudizio per l’ente, per il sistema delle imprese, per l’economia locale del territorio e per il sistema occupazionale mentre al contrario potrebbero contribuire a sostenere l’economia in un momento di forte crisi come l’attuale, contribuendo al sostegno dei lavori pubblici di piccola e media entità, con effetti anticiclici sull’economia locale e nazionale, con effetti positivi sull’occupazione delle imprese più deboli.

Inoltre per la realizzazione delle opere pubbliche gli enti locali hanno impegnato nel rispetto della normativa vigente, le somme occorrenti e soprattutto perfezionando obbligazioni giuridicamente vincolanti con terzi soggetti, in particolare imprese fornitrici di lavori, beni o servizi.

Non può essere sottovalutato il fatto che insistono in capo ai Comuni e alle Province responsabilità anche di carattere penale relativamente ad aspetti di salute pubblica e di sicurezza che richiedono per la loro garanzia interventi anche strutturali che implicano impegno economico inderogabile come ad esempio l’adeguamento alla stabilità sismica degli edifici scolastici, la messa in sicurezza della viabilità provinciale, l’assetto idrogeologico del territorio in caso di frane, dissesti, esondazioni.

La riforma organica dell’organizzazione della repubblica nel rispetto dei principi costituzionali

L’innovazione istituzionale e il ridisegno del perimetro della PA è una condizione indispensabile per rendere stabile la riduzione della spesa conseguita

La riduzione della spesa primaria deve ottenersi attraverso la reingegnerizzazione dei processi amministrativi, il ridisegno organizzativo delle amministrazioni pubbliche e la ridelimitazione dei confini del pubblico, ma anche innovando nelle modalità di erogazione dei servizi amministrativi, prevedendone – quando economicamente giustificata e tecnicamente fattibile – una gestione autonoma ed autofinanziata.

Ci sono le condizioni perché si possa giungere ad una riforma organica che punti alla semplificazione reale e alla modernizzazione del nostro sistema attraverso una coerente individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Regioni  e un profondo ripensamento dell’adeguatezza dimensionale di ogni livello di governo affinché le istituzioni territoriali possano esercitare effettivamente le loro funzioni in autonomia e responsabilità ed eliminando davvero strutture, organismi ed enti non rappresentativi che appesantiscono il sistema, determinano i veri costi occulti della politica e allontanano i cittadini dalle Istituzioni.

Nei prossimi giorni saranno presentati i provvedimenti sulla “spending review”.

Si apprende dalla stampa che l’obiettivo del Governo è di raggiungere il tetto dei 5 miliardi di euro di risparmi.

Stando alle indiscrezioni trapelate, sembra che al termine della ricognizione è stata ribadita la volontà di andare a fondo anche con gli interventi sugli enti intermedi come le Province, per le quali si punta ad un  taglio con legge ordinaria di quelle sotto la soglia di 350-400 mila abitanti ed è stata ribadita anche la volontà di garantire tempi stretti per il decollo delle città metropolitane, per garantire una razionalizzazione della spesa periferica.

Dalle scelte che saranno adottate si misurerà la capacità della classe politica a gestire l’emergenza economica e a trarre dalla situazione di anomalia e straordinarietà dell’attuale assetto di governo un’opportunità da non sprecare per una riforma vera, non fondata sull’autoconservazione di rendite di posizione acquisite a livello centrale, ma che punti sulla capacità delle autonomie locali di interpretare i bisogni della collettività, di saperle gestire, attraverso l’assunzione diretta di responsabilità, restituendo ai cittadini la sovranità che si traduce nella scelta dei propri pubblici amministratori.

Abbiamo più volte ribadito che una revisione organica dell’organizzazione della Repubblica è necessaria per semplificare il sistema, partendo però dal riordino delle competenze e basato sul sistema delle autonomie voluto dalla Costituzione e sancito dalla Carta Europea.

Ma non è più tempo di demagogiche e redditizie campagne anti casta o di soluzioni che soddisfano la voglia crescente di assistere ai “tagli” alle poltrone senza un disegno organico.

Da tempo l’UPI chiede un confronto su una proposta organica.

L’Unione delle Province d’Italia, infatti, in alternativa all’intervento del Governo, ha infatti proposto una riforma degli enti di area vasta che consente di riallocare 5 miliardi a favore dello sviluppo dei territori, attraverso:

  • – la razionalizzazione delle Province con la riduzione del loro numero effettuata in ambito regionale, con la previsione di accorpamenti tra Province, mantenendo comunque saldo il principio della rappresentanza democratica delle comunità territoriali;
  • – l’istituzione delle Città metropolitane come enti per il governo integrato delle aree metropolitane;
  • – la ridefinizione delle funzioni delle Province, in modo da lasciare in capo alle Province esclusivamente le funzioni di area vasta;
  • – l’eliminazione degli enti intermedi strumentali (agenzie, società, consorzi) che svolgono impropriamente funzioni che possono essere esercitate dalle istituzioni democratiche previste dalla Costituzione;
  • – il riordino delle amministrazioni periferiche dello Stato, legato al riordino delle Province;
  • – la destinazione dei risparmi conseguiti con il riordino degli enti di area vasta ad un fondo speciale per il rilancio degli investimenti degli enti locali.

Una proposta rilanciata dal Presidente dell’UPI: “Chiediamo al Governo, impegnato nella spending review, di ripartire a discutere della proposta dell’Upi, che prevede l’accorpamento delle Province e degli Uffici periferici dello Stato, il taglio degli Enti strumentali, assegnando alle Province e ai Comuni le funzioni che questi esercitano, e l’istituzione delle città metropolitane, e porta ad un risparmio di 5 miliardi di euro. Non è accentrando competenze e centri di spesa in capo alle Regioni, come previsto dal decreto Monti che svuota le Province delle proprie funzioni e le rende enti di secondo livello, che si riqualifica la spesa; la spending review può essere l’occasione migliore per riavviare un confronto costruttivo sulla nostra proposta di autoriforma. Noi, che tra l’altro siamo le uniche istituzioni ad avere presentato una proposta concreta di autoriforma, siamo pronti a lavorare per l’accorpamento delle Province, purché si tengano saldi i principi costituzionali e si confermino queste istituzioni quali enti di area vasta, elette democraticamente e dotate di funzioni di amministrazione dei territori. Questo consentirebbe al Governo non solo di raggiungere l’obiettivo dei risparmi, ma soprattutto di consegnare al Paese un sistema di governo locale più efficiente”.

Persino la Bce, che mesi orsono si era espressa per l’abolizione delle Province italiane, oggi ne sollecita l’accorpamento, in linea con le proposte elaborate dall’UPI.

Ma si vorrà finalmente prendere in seria considerazione la necessità di partire a razionalizzare l’organizzazione pubblica in primo luogo eliminando proprio tutti gli enti intermedi tra comuni e province come unioni, consorzi, comunità montane, agenzie, consorzi di bonifica, consorzi imbriferi, enti strumentali di ogni genere, che si presterebbero con estrema facilità ad essere ricondotti proprio al livello di governo provinciale?

Carlo Rapicavoli

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