I furbetti dell’elusione fiscale

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Chi non ha mai sentito la storia del “ponte del diavolo”? La leggenda secondo cui gli abitanti di un piccolo villaggio di montagna, incapaci di costruire –con le proprie risorse- un ponte che li collegasse al resto del mondo, fecero un patto con il diavolo affinché fosse quest’ultimo a realizzarlo in cambio dell’anima del primo che, ogni giorno, vi passasse sopra? Elusivo fu il comportamento di quegli astuti montanari che facevano puntualmente inaugurare il ponte ad un animale. Al diavolo, vinto dall’arguzia di quei paesani (ai quali non potè rimproverare di non avere rispettato il patto, posto che in nessun modo era stato specificato che il primo passante dovesse essere di natura umana), non restò che tornarsene da dove era venuto con le classiche “pive nel sacco”!

Questo, in poche ma eloquenti battute, il fenomeno dell’elusione che trova la sua (forse) più frequente applicazione nel settore fiscale, laddove tanti aguzzano l’ingegno pur di sfruttare le smagliature del sistema godendo (grazie all’imprecisione del legislatore) di un vantaggio in termini di risparmio fiscale.

Nel tempo sono stati individuati numerosi comportamenti elusivi (ad es., il c.d. dividend washing, determinati casi di scissioni societarie, ecc.) avverso cui il Legislatore ha, via via, reagito attraverso la creazione di norme ad hoc finalizzate alla repressione del variegato fenomeno (si vedano l’art. 10 l. 408/90 e l’attuale art. 37 bis D.P.R. 600/73).

Fino a qualche hanno fa illustri Autori sostenevano che nel nostro ordinamento – a differenza di altri stranieri- non esistesse una norma generale antielusiva.

Questo il primo degli assunti smentito dalla giurisprudenza che, negli anni, si è mostrata impegnata in questa eterna (e, probabilmente, inevitabile, connaturata) battaglia fra i contribuenti (che tendono a risparmiare le proprie risorse) ed il Fisco (che tende ad incrementare le entrate).

E’ alle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte (cfr. sentenze nn. 30055 e 30057 del 23/12/2008), infatti, che dobbiamo l’individuazione di un generale principio antielusivol’esistenza nel sistema tributario di specifiche norme antielusive non contrasta con l’individuazione di un generale principio antielusione, ma è piuttosto mero sintomo dell’esistenza dì una regola generale»), fondato sui principi costituzionali di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.), che «preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici>>.

Il secondo, non certo per importanza, assunto smentito dalla giurisprudenza riguarda il delicatissimo profilo della sanzionabilità del comportamento elusivo.

Posto che l’elusione fiscale si sostanzia nella realizzazione di un’operazione economico-giuridica attraverso l’utilizzo di “scappatoie” formalmente consentite, cioè realizzate senza violare alcuna norma, al fine di aggirare un obbligo tributario prima ancora che esso sia sorto,  ottenendo così un abbattimento totale o parziale dell’imposta, l’assenza di una violazione non dovrebbe (e qui il condizionale è d’obbligo) far configurare l’illecito e, dunque, far scattare l’applicabilità di una sanzione.

Il soggetto passivo non fa altro che realizzare l’operazione economica che si era prefissato scegliendo fra le tante possibili “vesti giuridiche” quella che gli consenta, da un lato, la realizzazione dello stesso risultato economico che il legislatore aveva assunto a presupposto della norma impositiva (della quale viene evitata l’applicazione e la conseguente maggiore imposizione), dall’altro, l’ottenimento di vantaggi fiscali in termini di godimento di rimborsi, riduzioni o totale abbattimento di imposte  altrimenti dovute.

Manca, dunque, una violazione di norme tributarie (benché rimanga evidente il loro aggiramento finalizzato alla minimizzazione del carico fiscale).

In considerazione di ciò, largamente condivisa è l’immediata reazione del nostro ordinamento consistente nel disconoscimento dei vantaggi fiscali indebitamente ottenuti. La reazione all’elusione consiste nella ricostruzione in modo non elusivo dell’operazione, ossia la sua sostituzione con negozio avente gli stessi effetti economici ma più oneroso dal punto di vista fiscale, e la sua conseguente tassazione.

Dunque, non la nullità degli atti civilistici realizzati (anzi validità, e fra le parti e rispetto ai terzi) ma unicamente la loro inopponibilità al fisco.

Questa visione oggi può dirsi tramontata.

Il formale rispetto delle norme (proprio perchè solo apparente, ed in realtà in sostanziale violazione dei principi informatori del sistema) non basta più a salvare il contribuente dalla reazione repressiva del nostro ordinamento.

Con una recente pronuncia la Corte di Cassazione (cfr. sent. del 28/02/12, N. 7739), tornata ad occuparsi del cd. fenomeno grigio, ha chiaramente argomentando circa la possibile rilevanza penale del comportamento elusivo così smentendo una delle prime teorizzazioni in ordine al fenomeno che ci occupa (si veda il c.d. caso Halifax -21 febbraio 2006, C-255/02- secondo cui la contestazione di un comportamento abusivo «non deve condurre ad una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro ed univoco, bensì e semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’IVA assolta a monte»).

La sentenza in commento, facendo leva sulle norme di cui agli artt. 1, lett. f), e 16 D.Lgs. n. 74 del 2000, giunge ad affermare a chiare lettera la punibilità dei comportamenti elusivi.

Secondo gli Ermellini (pronunciatisi in tema di esterovestizione), la presenza nell’ordinamento tributario di una norma del tenore dell’art. 73 D.P.R. n. 917/86 (t.u.i.r.) -posta dal Legislatore al precipuo fine di arginare il fenomeno- dimostra che lo Stesso vuol attribuire rilevanza non solo ai dati formali (quali appunto la sede legale o la sede dell’amministrazione), ma anche a dati sostanziali (quale l’oggetto principale dell’attività). “Il comma 5 bis dell’art. 35 T.U.I.R., ad integrazione dei criteri sostanziali di collegamento delle società costituite all’estero alla residenza fiscale in Italia, inserisce una presunzione relativa, che determina l’inversione dell’onere della prova a carico delle società estere, che detengono partecipazioni di controllo in società italiane, gestite ovvero controllate, anche indirettamente, da parte di soggetti di imposta italiani”.

Il nostro ordinamento ha così deciso di puntare sul criterio dell’effettività cosicchè non sia più possibile ostentare un rispetto solo formale della normativa per ottenere un indebito vantaggio di natura fiscale.

Significativi paiono i seguenti passaggi:

4.5 Dalla giurisprudenza penale sopra citata si può dedurre che i reati ipotizzabili con riferimento a condotte elusive sono quelli ex artt. 4, dichiarazione infedele, e 5, omessa dichiarazione, del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, di cui è chiamato a rispondere colui che rivestiva all’interno della società esterovestita le qualifiche funzionali che in sede tributaria lo obbligavano alla presentazione della dichiarazione stessa o della dichiarazione fedele, con la partecipazione a titolo di concorso nel reato di eventuali altri soggetti.

4.6 A sostegno della rilevanza penale della condotta elusiva deve osservarsi, in primo luogo, che l’art. 1, lett. f), D.Lgs. n. 74 del 2000, fornisce una definizione molto ampia dell’imposta evasa: «la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine», definizione idonea a ricomprendere l’imposta elusa, che è, appunto, il risultato della differenza tra un imposta effettivamente dovuta, cioè quella della operazione che è stata elusa, e l’imposta dichiarata, cioè quella autoliquidata sull’operazione elusiva”.

“…deve affermarsi il principio che non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge. In tal caso, infatti, si richiede al contribuente di tenere conto, nel momento in cui redige la dichiarazione, del complessivo sistema normativo tributario, che assume carattere precettivo nelle specifiche disposizioni antielusive. In altri termini, nel campo penale non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive, cosi come, invece, ritenuto dalle citate Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione, mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva.

4.8 Ad avvalorare la tesi della rilevanza penale dei comportamenti elusivi specificamente previsti dalla normativa di settore è la stessa linea di politica criminale adottata dal legislatore, nell’ambito delle scelte discrezionali che gli competono, in occasione della riforma introdotta con il d.lgs. n. 74 del 2000, che sono state ampiamente delineate dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 27 del 25/10/2000, imp. Di Mauro, n. 1235 del 28/10/2010 – 19/01/2011, Giordano) e dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 49 del 2002). Sia le Sezioni Unite che la Corte Costituzionale sottolineano che il legislatore, in occasione della riforma introdotta con il d.lgs. n. 74 del 2000, con una scelta di radicale alternatività rispetto al pregresso modello di legislazione penale tributaria, ha inteso abbandonare il «modello del c.d. “reato prodromico”, caratteristico della precedente disciplina di cui al d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1982, n. 516 – modello che attestava la linea d’intervento repressivo sulla fase meramente “preparatoria” dell’evasione d’imposta – a favore del recupero alla fattispecie penale tributaria del momento dell’offesa degli interessi dell’erario. Questa strategia – come si legge nella relazione ministeriale – ha portato a focalizzare la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che «realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e definitivo dell’evasione, negando rilevanza penale autonoma alle violazioni “a monte” della dichiarazione stessa» {Corte Cost. cit.).

Pertanto, se le fattispecie criminose sono incentrate sul momento della dichiarazione fiscale e si concretizzano nell’infedeltà dichiarativa, il comportamento elusivo non può essere considerato tout court penalmente irrilevante. Se il bene tutelato dal nuovo regime fiscale è la corretta percezione del tributo, l’ambito di applicazione delle norme incriminatrici può ben coinvolgere quelle condotte che siano idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile”.

Carla Migliorisi

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