La Suprema corte dichiara che “in tema di responsabilità disciplinare degli avvocati, la pubblicità informativa che lede il decoro e la dignità professionale costituisce illecito, ai sensi dell’art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, poiché l’abrogazione del divieto di svolgere pubblicità informativa per le attività libero-professionali, stabilita dall’art. 2 del dl 4 luglio 2006 n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248, non preclude all’organo professionale di sanzionare le modalità ed il contenuto del messaggio pubblicitario, quando non conforme a correttezza”, in linea dunque con quanto fissato dal codice deontologico forense, tanto più che la reclame informativa dovrebbe essere “funzionale all’oggetto, veritiera e corretta”, e non dovrebbe violare il segreto professionale, né essere equivoca, ingannevole o denigratoria.
Nella circostanza presa in considerazione la colpevolezza proveniva proprio dal fatto che la “pubblicità” si era tenuta “con modalità lesive della dignità e del decoro della professione”. La sentenza impugnata, infatti, evidenzia che il “tipo di pubblicazione”, il “titolo dell’articolo”, la “forma dell’intervista”, costituivano, una “modalità” non consona, perché “non consentivano al lettore di percepire con immediatezza di trovarsi al cospetto di una informazione pubblicitaria”, che a buon diritto si poteva ritenere, quindi, “occulta”.
A tanto contribuiva, poi, “il contenuto intrinseco dell’intervista che, lungi dal contenere riferimenti alle problematiche tecnico giuridiche sui rapporti commerciali e societari che ci si aspetterebbe chiamate in causa dal titolo (Joint ventures e partnership all’estero), si sviluppa in quattro pagine attardandosi, invece, sulla struttura, le competenze e le attività dello studio professionale arricchito da numerose rappresentazioni fotografiche”.
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