Attività extra lavorativa in malattia: quando si può fare

Paolo Ballanti 23/08/18
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Non è licenziabile il dipendente che durante la malattia si dedica ad altra attività lavorativa a condizione che l’impegno sia sporadico e non pregiudichi il recupero del proprio stato di salute. La Cassazione torna con la sentenza n. 13270/2018 sul già affrontato tema delle prestazioni extralavorative in costanza di malattia.

La sentenza della Suprema Corte conferma che non esiste, durante la malattia, un divieto assoluto di lavorare per un soggetto terzo purché non si dimostri l’intento del dipendente di:

  • Simulare la malattia così da essere disponibile per un altro datore;
  • Compromettere o ritardare la guarigione approfittando del riposo per trarne una qualche utilità da un altro datore di lavoro in danno di chi fa affidamento sulla buona fede e correttezza dei propri dipendenti.

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Attività extra lavorativa in malattia: illecita se ritarda la guarigione

Di recente la Cassazione (sentenza n. 6047/2018) ha aggiunto che lo svolgimento di attività lavorativa durante la malattia si qualifica come illecito disciplinare se tale attività può concretamente pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore e, addirittura, quando la ripresa è solo messa in pericolo dalla condotta imprudente.

Si parla del cosiddetto “obbligo di cautela” imposto al dipendente, in virtù del quale si chiede allo stesso di adottare tutte le cautele necessarie per scongiurare una prosecuzione dello stato di malattia.

Per giurisprudenza consolidata il lavoratore cui venga contestata la violazione disciplinare è chiamato a dimostrare la compatibilità tra l’attività extra e la malattia, oltre all’incapacità della stessa di pregiudicare il recupero delle condizioni fisiche.

La sentenza in commento trae le mosse dal licenziamento disciplinare di una dipendente rea di essersi dedicata, durante il periodo di astensione per malattia e infortunio, ad altra attività per conto e nell’interesse del bar intestato al coniuge.

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Soccombente in primo grado, la dipendente ricorreva in Corte d’Appello la quale dichiarava l’illegittimità del licenziamento. A fondamento della decisione il giudice di seconde cure rilevava che dal quadro istruttorio emergeva lo svolgimento dell’attività extra solo per poche ore.

Il giudice di merito affermava poi come non fosse emersa alcuna fraudolenta simulazione dello stato di malattia e dell’infortunio, né, si legge nella sentenza, che “la lavoratrice avesse assunto un rischio di aggravamento delle proprie condizioni di salute”.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, l’azienda ricorre in Cassazione lamentando l’omessa considerazione di una serie di episodi oggetto di contestazione disciplinare nel corso dei quali, oltre a servire i clienti del bar, la dipendente aveva utilizzato scarpe dal tacco alto e trasportato pesi, ponendo in essere “una condotta incompatibile con il proprio stato di salute”.

Investita del gravame la Corte di Cassazione respinge il ricorso aziendale, affermando che l’accertamento svolto dal giudice di secondo grado ha portato lo stesso a ritenere dimostrata:

– L’effettività dello stato patologico in cui versava la dipendente;

– L’insussistenza di elementi tali da far desumere la necessità di un riposo assoluto.

Inoltre, continua la Suprema Corte, gli elementi di prova acquisiti dal giudice di merito dimostravano lo svolgimento dell’attività commerciale presso il bar gestito dal coniuge come meramente sporadica, che “non comportava pregiudizievoli ricadute, stante l’occasionalità delle prestazioni, sul proprio stato di salute, sicché non comprometteva l’interesse della parte datoriale al conseguimento della prestazione lavorativa”.

Paolo Ballanti

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