L’arbitrato dopo la riforma 2014: numero e nomina degli arbitri

Redazione 22/01/15
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Non vi è affatto concordia in dottrina sulla qualifica del rapporto che lega le parti dell’arbitrato ed arbitri.

Secondo l’opinione di RUBINO-SAMMARTANO, il quale non ritiene opportuno ricorrere all’inquadramento entro gli schemi di un negozio atipico, il cd. «contratto di arbitrato» potrebbe essere qualificato come una sorta di «mandato sui generis, consistente nel compimento non di un negozio, quale un acquisto o una vendita, ma di un atto decisionale a formazione progressiva, attraverso una serie di prestazioni d’opera intellettuale». La stessa Cassazione ha ricondotto il rapporto tra le parti e gli arbitri nell’alveo del mandato collettivo, con la conseguenza di affermare che la revoca può intervenire solo di comune accordo tra tutti i mandanti, salvo che ricorra una giusta causa. Quindi, l’accettazione espressa dagli arbitri  non sarebbe altro se non il momento finale del negozio a formazione progressiva.

Il presente articolo è tratto dal volume di Andrea Sirotti Gaudenzi “Procedimento arbitrale e rapporti con il processo civile dopo la Legge 162/2014“, Maggioli Editore 2015.

 

Il numero degli arbitri

Innanzitutto, si deve sottolineare che l’art. 809 c.p.c. (in precedenza intitolato «Numero e modo di nomina degli arbitri») si occupa del numero degli arbitri. Le disposizioni del codice precedenti alla riforma del 2006 sono rimaste immutate. Innanzitutto, «gli arbitri possono essere uno o più, purché in numero dispari». La funzione della disposizione (presente nel codice sin dalla sua prima stesura) è quella di garantire l’operatività del giudizio arbitrale e l’imparzialità dell’organo giudicante, tradizionalmente applicato sia all’arbitrato rituale che all’arbitrato irrituale.

Si precisa che il numero dispari di arbitri deve sussistere al momento della costituzione del collegio. Pertanto, come chiarito dalla Suprema Corte, è nulla, ai sensi dell’art. 809 c.p.c., e, come tale, inidonea a sottrarre la controversia al giudice, la clausola compromissoria che affi di la soluzione di possibili controversie a due arbitri e preveda la nomina di un terzo arbitro, da parte degli arbitri già nominati, unicamente in via del tutto eventuale e subordinata, per il caso di discordanza di questi ultimi nel giudizio da emettere. Conformemente, la giurisprudenza di merito ha osservato che la clausola compromissoria con cui le parti si accordano nel senso che, in caso di controversia, il giudizio sarà rimesso ad «un arbitrato amichevole compositore costituito da un arbitro nominato da ciascuna parte contendente» è nulla.

 

La nomina dell’arbitro

Nonostante l’indubbia natura negoziale dell’atto di nomina, non si esclude che esso produca anche gli effetti della vocatio in ius; infatti, nel quadro normativo formatosi grazie alla legge 5 gennaio 1994, n. 25, la notifica della domanda di arbitrato segna l’inizio, a tutti gli effetti, del procedimento arbitrale.

Gli arbitri devono essere designati con il concorso della volontà dei contraenti. Tuttavia, in mancanza delle formalità indicate dal primo comma dell’art. 810 del codice di rito, è il secondo comma dello stesso articolo a fornire una soluzione alla mancata nomina dell’arbitro: infatti, si dispone che la parte che ha fatto l’invito possa «chiedere, mediante ricorso, che la nomina sia fatta dal presidente del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato».

 

Redazione

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