Mobbing: requisiti, caratteristiche e modalità processuali

Redazione 12/11/14
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In tempi di revisione delle norme che regolano il rapporto del lavoro – e soprattutto di quelle che stabiliscono i limiti attraverso cui il rapporto di lavoro può interrompersi – anche i limiti di ciò che può o meno essere o meno considerato come mobbing possano mutare parallelamente alle condizioni. Con il Jobs Act che affronta mille difficoltà nei vari passaggi in Parlamento, si prepara una rivoluzione nei rapporti di lavoro, soprattutto nelle condizioni che possono portare ai licenziamenti, se le modifiche annunciate saranno poste in essere.

Tra gli elementi che possono potare alla rottura definitiva del rapporto tra lavoratore e datore di lavoro, figura sicuramente il mobbing, una pratica illecita a cui sono sottoposti sempre più lavoratori, il quale, come erroneamente si pensa, non riguarda solo le aziende private. Ne discutiamo con l’esperta Rocchina Staiano, autrice del volume “Mobbing: comportamenti e tutele processuali” (Maggioli Editore)

 

Sono un lavoratore di un’azienda privata, che ho subito comportamenti offensivi e denigranti dal datore di lavoro. Ciò è mobbing?

E’ noto che il mobbing sul posto di lavoro consiste in un complesso di condotte, il cui nome deriva dall’inglese “to mob” (assalire, aggredire), mutuato dall’etologia, per descrivere “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed incostante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore,inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo o gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione”. Per potersi parlare di mobbing occorre una pluralità di atti, posti in essere da più persone e prolungati per almeno un certo periodo di tempo ed aventi un minimum standard oggettivo di nocività. Il mobbing aziendale, per cui potrebbe sussistere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, è quindi collettivo e comprende l’insieme di atti ciascuno dei quali è formalmente legittimo ed apparentemente inoffensivo; inoltre deve essere posto con dolo specifico quale volontà di nuocere, o infastidire, o svilire un compagno di lavoro, ai fini dell’allontanamento del mobbizzato dall’impresa. Gli elementi caratterizzanti il mobbing sono quindi: l’aggressione o la vessazione psicologica della vittima; la potenzialità lesiva della condotta; la durata nel tempo dei comportamenti vessatori;  la ripetizione e/o reiterazione delle azioni ostili, che le rende sistematiche; l’andamento progressivo della persecuzione psicologica, con l’individuazione disei fasi di sviluppo del fenomeno; il dolo specifico.

 

Il mobbing è presente anche nel settore pubblico?

Sì; il mobbing è presente sia nel settore privato che nel settore pubblico; ossia nessun dubbio sussiste sull’applicabilità della figura del “mobbing” anche al settore dell’impiego pubblico (v. Trib. Tempio Pausania, 10 luglio 2003; Trib. Forlì 28 gennaio 2005; di recente, T.A.R. Campania Napoli, Sez. II, 25 gennaio 2013, n. 599), in particolare dopo la contrattualizzazione del rapporto di lavoro e la devoluzione conseguente al giudice del lavoro delle relative controversie. Non si deve infatti dimenticare che la tutela costituzionale del lavoro è estesa dall’art. 35 Cost. a tutte le forme dello stesso, quindi anche alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Pur venendo a mancare l’aggancio con l’art. 41 Cost., normalmente utilizzato per il lavoro privato per una lettura costituzionalmente orientata della problematica (riferendosi tale articolo solo all’iniziativa economica privata), sul punto può sopperire l’art. 97 Cost. e la regola generale del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione, concetti in evidente contrasto con il fenomeno del mobbing ed incompatibili con lo stesso.
Il reato di maltrattamento in famiglia, regolato dall’art. 572 c.p., può trovare applicazione in caso di condotte persecutorie e mobbizzanti?

Sì. la giurisprudenza penale sul punto della possibile applicazione della disciplina dell’art. 572 c.p. anche all’ambito lavorativo ha precisato che ciò che è necessario, oltre al mero rapporto di sovraordinazione è che il rapporto di lavoro si svolga con forme e modalità tali da assimilarne i caratteri a quelli (relazioni intense ed abituali, consuetudini di vita tra i soggetti interessati, soggezione di una parte con corrispondente supremazia dell’altra, fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre la posizione di supremazia (Cass. pen., Sez. 6, 685/2011) propri di un rapporto di natura “para-familiare”. Tale specificazione va apprezzata con riferimento ai casi concreti nei quali la Corte suprema ha giudicato sussistere il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in ambito lavorativo, perchè sono essi che aiutano a comprendere il senso reale dei limiti dell’estensione. Così, è stata esclusa la configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p. in casi di rapporto non solo tra dirigente e dipendente di un’azienda di grandi dimensioni (Cass. pen., Sez. 6, sent. 26594/2009), ma anche tra sindaco e dipendente comunale (Cass. pen., Sez. 6, sent. 43100 del 2011), tra capo officina e meccanico (Cass. pen., Sez. 6, sent. 44803/2011), tra capo squadra e operaio (Cass. pen., Sez. 6, sent 685/2011). Significativamente, alcune di queste sentenze hanno indicato come esempio di rapporto di lavoro cui sarebbe applicabile la fattispecie dell’art. 572 c.p. quelle “tipicamente a carattere familiare”, o “caratterizzate da familiarità” come il rapporto tra colf e persone della famiglia o quello non occasionale tra maestro d’arte ed apprendista. Assidua comunanza di vita è la situazione di fatto che caratterizzava la peculiare vicenda definita da Cass. pen., Sez. 6, sent 10090/2001 (con trasferte su unico pulmino, consumo dei pasti insieme e pernottamento nei medesimi alberghi, giovane età dei dipendenti, in un contesto caratterizzato da gravi e permanenti angherie fisiche e verbali) in senso favorevole all’applicazione dell’art. 572 c.p.. In definitiva, è vero che l’art. 572 c.p. ha “allargato” l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello solo endo-familiare in senso stretto. Ma pur sempre la fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti della famiglia ed indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli sicchè non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di generico, e generale, rapporto di subordinazione/sovraoel comma 2 e’ disposta in grado d’appello e il procedimento arbitrale non si conclude con la pronuncia del lodo entro centoventi giorni dall’accettazione della nomina del collegio arbitrale, il processo deve essera in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Se così non fosse, ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro per ciò solo dovrebbe configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione in termini di violazione dell’art. 572 c.p. di condotte che, di eguale contenuto ma poste in essere in contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile, con evidente irragionevolezza del sistema.

 

Può essere considerato mobbing anche atti discriminatori per motivi sindacali?

La condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di lavoro finalizzata ad isolare od espellere il dipendente dal contesto lavorativo (cosiddetto “mobbing”) si differenzia, pur potendola ricomprendere, da quella discriminatoria per motivi sindacali: richiedendosi, nel primo caso, una pluralità di atti e comportamenti (eventualmente anche leciti in sé considerati) unificati dall’intento di intimorire psicologicamente il dipendente e funzionali alla sua emarginazione, attuandosi, invece, la discriminazione per motivi sindacali, anche attraverso un unico atto o comportamento e connotandosi di illiceità di per sé, in quanto diretta a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali, a prescindere da un intento di emarginazione (Cass. civ., Sez. lavoro, 9 settembre 2008, n. 22893).

 

Sono un lavoratore del pubblico impiegato privatizzato, che sta subendo mobbing, posso presentare ricorso al tribunale in funzione del giudice del lavoro?

Sì; sul punto, la Cass. civ., sez. un., 8 novembre 2005, n. 21592 ha ritenuto che in materia di lavoro pubblico privatizzato, dal sistema di riparto di giurisdizione delineato dall’art. 63, comma 1, del D. Lgs. 165/2001, risulta che solo le controversie concernenti (secondo il criterio dell’oggetto della controversia in base al quale non è sufficiente la mera impugnazione dell’atto amministrativo) gli atti recanti le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, adottati dalle amministrazioni ai sensi dello stesso decreto, art. 2, comma 1 – quali atti presupposti, rispetto a quelli di organizzazione e gestione dei rapporti di lavoro, nei confronti dei quali sono configurabili astrattamente situazioni di interesse legittimo derivando gli effetti pregiudizievoli direttamente dall’atto presupposto – spettano alla giurisdizione del giudice amministrativo, mentre resta irrilevante la loro incidenza riflessa sugli atti di gestione di diritto privato dei rapporti di lavoro, ai fini dell’attrazione alla giurisdizione del giudice ordinario, nonchè l’effettiva sussistenza dell’interesse al ricorso, atteso che le questioni della legittimazione, processuale e sostanziale, e delle condizioni dell’azione sono estranee all’area dei limiti esterni del potere giurisdizionale e vanno risolte dal giudice munito di giurisdizione.  In proposito la Cass. civ., sez. un., 27 novembre 2007, n. 24625 e la Cass. civ., Sez. Un., 13 marzo 2009, n. 6058 ha affermato che in tema di lavoro pubblico contrattualizzato e in riferimento a questioni successive al 30 giugno 1998, qualora la domanda, individuata sulla base dell’oggetto della controversia in funzione della causa petendi, del dipendente pubblico miri alla tutela di posizioni giuridiche soggettive afferenti il rapporto di lavoro, asseritamente violate da atti illegittimi, vessatori e discriminatori (mobbing), la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, cui spetta pure la domanda di risarcimento del danno da mobbing, atteso che, anche se fosse qualificabile come responsabilità contrattuale (e non extracontrattuale) le questioni concernono il periodo di lavoro successivo al 30 giugno 1998.

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