Lavoro pubblico e art.18: Pantalone paga gli indennizzi o gli stipendi?

Luigi Oliveri 11/06/12
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Il dibattito sull’estensione o meno della riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico prosegue su un piano che lascia davvero stupefatti.

Ne è riprova la lettera del Ministro Patroni Griffi al Corriere della sera del 7 giugno, con la quale, sostanzialmente, si indicano due argomentazioni del tutto strumentali per sostenere una presunta specificità del lavoro pubblico, tale da escludere a tale tipologia del lavoro l’operatività del “nuovo” articolo 18, come sarà ridisegnato dalla riforma-Fornero.

La prima argomentazione riguarda il rapporto di lavoro dei dirigenti. Osserva il Ministro: “se è il politico che licenzia il dirigente apicale, prevedere il solo indennizzo significa consentire al politico di “fidelizzare” il dirigente, tanto se lo licenzia illegittimamente il dirigente resta fuori e Pantalone paga l’indennizzo”.

Poche osservazioni. Dovrebbe risultare del tutto chiaro e ovvio che non può e non deve essere il politico a licenziare nessuno, né il dirigente apicale, ma nemmeno qualsiasi altro lavoratore, posto che l’articolo 4, commi 1 e 2, del d.lgs 165/2001 è molto chiaro nel sottrarre alla politica qualsiasi competenza gestionale, comprendente anche il rapporto di lavoro.

Dunque, solo un’applicazione patologica delle norme vigenti può indurre a ritenere possibile un licenziamento nei confronti di un dirigente apicale, deciso da un politico.

L’ipotesi, se il dibattito fosse condotto in modo non strumentale, non dovrebbe nemmeno essere presa in considerazione in via esemplificativa.

Il dirigente può, del resto, essere licenziato:

a)      per grave inosservanza delle direttive;

b)      per conclamata incapacità di raggiungere gli obiettivi;

c)      per scarso rendimento;

d)      per coinvolgimento in una procedura di esubero, ai sensi dell’articolo 33 del d.lgs 165/2001.

In nessuno di questi casi interviene un organo politico. E’ il nucleo di valutazione o l’organismo indipendente di valutazione a curarsi delle prime tre ipotesi, mentre l’ultima è frutto di un complesso procedimento di natura sostanzialmente tecnica, per quanto possano essere coinvolti nelle decisioni anche organi politici.

In ogni caso, qualora fosse plausibile ed accettabile la preoccupazione del Ministro, basterebbe una norma di pochissime righe da inserire nella riforma del lavoro pubblico, che vietasse esplicitamente, a pena di totale inefficacia, agli organi politici di adottare qualsiasi provvedimento di assunzione o licenziamento di dirigenti. Sarebbe anche ora. Così si eliminerebbe anche quello spoil system sotto mentite spoglie che la politica mette a punto con gli incarichi “esterni”.

Rispetto, poi, al problema di Pantalone che paga l’indennizzo, occorre domandarsi se non sia comunque Pantalone a pagare gli stipendi dei dirigenti. Una reintegrazione per licenziamento illegittimo costerebbe a Pantalone più o meno di un indennizzo?

La seconda argomentazione concerne il resto dei dipendenti: “Se un dirigente licenzia il dipendente illegittimamente e prevediamo il solo indennizzo, delle due l’una: o il dirigente è responsabile personalmente, e allora addio licenziamenti; o lo esoneriamo dalla responsabilità e riprende a pagare Pantalone”.

Su Pantalone ci siamo già soffermati sopra. In quanto al resto, è bene evidenziare che la questione dell’indennizzo riguarda esclusivamente il licenziamento derivante da giustificato motivo oggettivo. A costo di ripeterci, nella pubblica amministrazione il giustificato motivo oggettivo discende da quanto prevede l’articolo 33 del d.lgs 165/2001, il cui comma 1 dispone: “Le pubbliche amministrazioni che hanno situazioni di soprannumero o rilevino comunque eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria, anche in sede di ricognizione annuale prevista dall’articolo 6, comma 1, terzo e quarto periodo, sono tenute ad osservare le procedure previste dal presente articolo dandone immediata comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica”.

Dunque, la situazione di esubero (che può eventualmente portare al licenziamento) non discende certo da un’azione isolata del dirigente datore di lavoro, ma da una serie di atti di notevole rilevanza (bilanci, rilevazioni del rispetto di vincoli finanziari e del patto di stabilità, situazioni di dissesto) tutti necessitanti asseverazioni di organi di revisione e controllo. Appare piuttosto difficile immaginare una responsabilità personale del dirigente. Per altro, sempre l’articolo 33, al comma 3, dispone: “La mancata attivazione delle procedure di cui al presente articolo da parte del dirigente responsabile è valutabile ai fini della responsabilità disciplinare”. Sembra proprio, dunque, che rilevare la sussistenza di eventuali condizioni che inducano al licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia un dovere e non una scelta estemporanea.

Nulla è da escludere quando si apre una vertenza, ma viste le disposizioni normative vigenti, sembrerebbe alquanto difficile per il giudice del lavoro individuare l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in ambito pubblico.

In ogni caso, non appare ammissibile che, da un lato, il dirigente sia sotto il martello delle responsabilità disciplinari, ma anche dirigenziali, per mancata attivazione della procedura di esubero, e contestualmente sopra all’incudine della responsabilità per licenziamento eventualmente qualificato illegittimo dal giudice. Sarebbe proprio questo problema che la riforma del lavoro pubblico dovrebbe risolvere.

Si è invece scelto di non affrontare per nulla la questione. Dimenticando, ancora una volta, quanto prevede l’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001: “La legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. Dunque, la riforma-Fornero al lavoro pubblico si applicherà.

Il legislatore può decidere di divaricare le sorti dei lavoratori pubblici da quelli privati, ma non con un atteggiamento passivo, cioè non inserendo alcuna specifica previsione in tema nella riforma del mercato del lavoro, bensì solo modificando espressamente l’articolo 51, comma 2, e sostituendo ad esso una disciplina diversa.

Dall’accordo tra Palazzo Vidoni e sindacati dello scorso 3 maggio emerge, da parte di molti osservatori, proprio la sensazione che si voglia giungere a questo risultati.

Luigi Oliveri

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