Libera nos a ICI. Amen.

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Che abbia ragione il cardinale Bagnasco, quando afferma che la Chiesa cattolica paga regolarmente l’ICI?

Probabilmente sì, perché la legislazione italiana è congegnata in modo da consentire legittime elusioni agli enti religiosi.

La faccenda non è semplice, e dovrete avere un poco di pazienza.

In origine era l’art. 7, comma 1, lettera i), d. lgs. 504/92, che esentava gli immobili degli enti che non avevano fine esclusivo o prevalente di lucro ed erano destinate alle attività istituzionali propri oppure a quelle dell’art. 16, lettera a), l. n. 222/85.

Queste ultime sono “le attività di religione e di culto, quelle dirette all’esercizio del culto ed alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi ed all’educazione cristiana“.

La giurisprudenza della Cassazione aveva stabilito che gli edifici degli enti religiosi erano esenti da ICI in due casi distinti:

1) se erano destinate alle attività dell’art. 16, lettera a) l. n. 222/85;

2) oppure ad altre attività, purché rientranti tra gli scopi istituzionali (e non lucrativi!) degli enti stessi, come del resto gli enti di beneficienza non religiosi (sezione tributaria n. 4645/2004).

Con quell’impostazione, in pratica restavano fuori dall’esenzione gli immobili destinati ad attività commerciali, o comunque diverse da quelle istituzionali.

Il secondo governo Berlusconi, con il D.L. 203/2005 adottò una norma chiaramente diretta a bloccare la Cassazione.

Quella norma stabiliva che l’esenzione “si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse”.

Nonostante si dichiarasse “interpretativa”, la norma fu definita giustamente innovativa dalla giurisprudenza, che fino al 2010 ha continuato ad applicare il suo precedente orientamento a situazioni, che si erano maturate prima dell’entrata in vigore della norma del 2005.

Il secondo governo Prodi cercò di rimediare in piccolissima misura, perché sostituì la norma del 2005 con una che esentava le attività “che non abbiano esclusivamente natura commerciale”.

Quindi, prima tutte le attività commerciali erano esenti, poi solo quelle che non erano esclusive.

Non sono perciò d’accordo con i commenti giornalistici, che hanno accusato di compiacenza clericale il governo Prodi: certo, questo si mosse nell’ambito delle maglie allargate con estrema generosità, ma cercò di stringerle un pochettino (parlo di governi e non di parlamento, nonostante questo abbia adottato le norme, perché entrambe furono di iniziativa governativa, quali decreti-legge.)

Così congegnata la combinazione di norme, si presta facilmente a contestazioni in sede contenziosa, soprattutto perché i Comuni sono tenuti a provare il carattere non esclusivamente commerciale delle attività svolte negli immobili di proprietà religiosa, dopo avere distinto tali attività da quelle istituzionali: una prova spesso impossibile, e comunque alquanto laboriosa.

Per fare un esempio della difficoltà d’applicazione della normativa, si può citare il caso della canonica di una parrocchia, se disabitata dal parroco che vive altrove: a parità di situazione, in una decisione della Cassazione la canonica è stata individuata quale pertinenza della chiesa, e dunque esente (n. 20033/2005) , ma in un altro no (n. 11437/2010).

Se s’intende estendere la base imponibile a carico della chiesa cattolica e degli enti ad essa collegati, è necessario un deciso intervento normativo, ma a quanto pare il governo in carica “non si è posto la questione”.

Dario Sammartino

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