Sanatoria dei contratti decentrati: occorre correggere il tiro

Luigi Oliveri 01/07/15
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La sanatoria della contrattazione decentrata contenuta nel “salva Roma” non è stata sufficiente a risolvere i nodi della spesa connessa alle risorse decentrate.

Era facilmente prevedibile. L’articolo 4 del d.l. 16/2014, convertito in legge 64/2014 è scritto in modo troppo complesso per risultare chiaro e portare ad un’applicazione univoca e certa.

Si susseguono, dunque, sentenze dei giudici ordinari e pareri delle Sezioni regionali della Corte dei conti contraddittori, inestricabili, mentre la situazione negli enti presso i quali l’Igop ha effettuato le ispezioni va verso la recrudescenza.

Roma ha nuovamente aperto la pista: nonostante l’attuale amministrazione abbia modificato la contrattazione collettiva, resta il nodo dei 250 milioni spesi senza un corretto titolo nel corso del quinquennio amministrativo precedente, come ha accertato il Mef. Che, però, assicura di non volerli chiedere indietro, quando, tuttavia, la richiesta è sostanzialmente un atto dovuto, dal momento che gli esiti delle ispezioni vanno trasmesse alla Corte dei conti perché questa attivi le procedure di recupero.

Ma, recupero nei confronti di chi? Il “salva Roma” avrebbe dovuto rispondere a questa incognita in modo definitivo. L’idea era di non incidere nei confronti dei dipendenti che avessero ricevuto i pagamenti non sorretti da contratti decentrati pienamente legittimi, per fare sì che le amministrazioni recuperassero la maggiore spesa direttamente sui fondi.

Appare una soluzione logica e di buon senso. Se errori nella contrattazione comportano che la spesa invece di essere 1000 fosse stata di 1200, nel corso degli anni il comune potrebbe recuperare i 200 spesi in più con decurtazioni al fondo. Certo, alla fine anche i dipendenti subirebbero una contrazione dei pagamenti delle risorse decentrate, che compenserebbe i maggiori pagamenti precedenti, ma senza incidere direttamente sul loro patrimonio con richieste di restituzione diretta, molto più pesanti sul piano finanziario.

Tuttavia, la soluzione logica e di buon senso sconta, come detto prima, una formulazione complicatissima dell’articolo 4 del “salva Roma”, ai limiti dell’incomprensibilità e un’altra serie di problemi.

Troppe sono, ad esempio, le condizioni poste per accedere alla sanatoria, prima tra le quali il rispetto del patto di stabilità. Certo, non è indice di estrema correttezza incrementare più del lecito le risorse della contrattazione decentrata mentre si vìola il patto di stabilità, ma è noto e conosciuto che molte volte lo sforamento del patto di stabilità è sostanzialmente indotto dalle regole del patto stesso e dai tagli pesantissimi imposti dallo Stato agli enti locali. Non sono pochi quelli che hanno sfiorato formalmente il patto, pur avendo conseguito avanzi di amministrazione molto consistenti.

In fondo, il rispetto del patto di stabilità, pur essendo indice di un amministrare il più possibile corretto, non ha connessioni dirette con il fondo della contrattazione decentrata, a meno che le ispezioni o le vertenze non dimostrino che proprio la maggiore spesa della contrattazione stessa non sia la causa scatenante dello sforamento.

Altrimenti, il principio generale ispiratore del “salva Roma”, cioè il riequilibrio della maggiore spesa con una riduzione equivalente diluita negli anni, vale egualmente, patto o non patto. Magari, per gli enti che abbiano violato il patto di stabilità si potrebbero prevedere norme ancora più stringenti sul personale: ma oltre al blocco delle assunzioni ed al divieto di incrementare le risorse variabili, non pare vi possano essere molte altre misure (ricordando che ne esistono ulteriori altre sulle indennità degli amministratori, gli acquisti, il volume degli impegni di spesa).

Discorsi analoghi possono essere proposti per le altre condizioni previste dall’articolo 4 del d.l. 16/2014, cioè il rispetto dei limiti alle assunzioni e alla spesa complessiva del personale.

Il testo della norma si è rivelato di difficile applicazione anche perché non indica l’orizzonte temporale entro il quale effettuare il recupero delle somme. E qui si intrecciano anche le discrasie giurisprudenziali relative ai termini di prescrizione.

Si passa, dunque, per una prima tesi, secondo la quale il recupero dovrebbe riguardare il quinquennio di spesa illegittima, in ossequio alla prescrizione quinquennale del danno erariale. Un quinquennio, comunque, “mobile”, perché esso decorre non dall’evento che cagiona il danno (in ipotesi, la sottoscrizione del contratto decentrato o dell’atto costitutivo del fondo), bensì dalla scoperta dell’evento.

Una seconda tesi propende, invece, per un arco di tempo decennale, dovuto alla prescrizione ordinaria prevista per l’indebito oggettivo.

Non essendo stato precisato dalla legge né il dies a quo, né il dies ad quem del recupero delle maggiori somme illegittimamente previste dalla contrattazione decentrata, è lasciato sostanzialmente all’arbitrio delle amministrazioni stabilire come procedere. Il che comporta una serie di ulteriori rischi procedimentali, dal momento che un tribunale potrebbe accedere ad una tesi, una Corte dei conti all’altra, senza un criterio predeterminato né predeterminabile.

La teoria dell’indebito oggettivo, per quanto ormai divenuta maggioritaria in giurisprudenza, ha per altro un problema molto rilevante: scarica sul singolo dipendente la responsabilità dell’indebito, quando la sua fonte è un atto negoziale tra amministrazione e parti sindacali, nel quale il singolo dipendente non ha alcuna responsabilità, né potere di intervento diretto.

Allora, appare evidente che le responsabilità connesse ad una cattiva gestione dei fondi non sarebbero da ricondurre alla posizione del singolo dipendente. Le richieste di restituzione ai lavori sono, oltre tutto, fonte di ulteriori contenziosi giudiziari, una moltiplicazione di cause e vertenze senza controllo, che espongono amministrazioni e lavoratori a decisioni imprevedibili, dai contenuti opposti e incoerenti, dalle quali possono derivare ulteriori azioni di responsabilità ove la parte soccombente sia l’amministrazione.

Il tutto dovrebbe far comprendere che è il soggetto giuridico autore dell’illecito è l’ente, la persona giuridica datore di lavoro, non il singolo lavoratore sul quale si riverbera una contrattazione non correttamente condotta.

Sembra chiaro che un rimedio normativo vero e serio al problema non può che ricondurre all’ente il compito di riequilibrare il fondo, con un piano pluriennale dalla durata e dall’entità certe, specificando con precisione le cause di eventuali responsabilità. Si tenga presente che la parte datoriale è l’unica chiamata a rispondere, mentre quella sindacale no, e che la parte datoriale è spesso compressa tra pulsioni politiche e sindacali estremamente forti, tali da condizionarne in maniera molto forte l’operato, al di là di possibili elementi di dolo o colpa grave.

Di fatto, il “salva Roma” richiede una manutenzione ed una riscrittura tale da rimediare davvero alle situazioni, seguendo poche linee direttive, essenziali per uscire dal cortocircuito in atto. Basti pensare alla recente pronuncia della Sezione regionale di controllo della Lombardia, 224/2015, che mette benzina sul fuoco del caos ritenendo che l’azione di recupero vada posta contro i singoli dipendenti per le maggiori spese dei contratti decentrati a partire dal 2013; oppure, i contrasti tra giudici ordinari ed Agenzia delle entrate rispetto al problema del recupero anche delle imposte sul reddito, con i togati sulla posizione (di buon senso e logica) secondo la quale non si deve recuperare dal lavoratore un reddito non percepito (le imposte), mentre l’Agenzia ritiene il contrario.

Occorre con urgenza, dunque, una norma che chiarisca in modo semplice il tutto, prevedendo:

a)                            l’obbligo di recupero in maniera molto chiara ed a regime a valere sulle risorse della contrattazione decentrata e non sui singoli dipendenti;

b)                           la precisazione dei termini di durata del recupero;

c)                            la precisazione delle posizioni di responsabilità, tenendo conto delle pressioni esercitate dalle parti politiche e sindacali ai fini della posizione psicologica;

d)                           l’esclusione che siano cangianti e mutevoli pareri dell’Aran, soggetto per altro privo di poteri normativi autoritativi, a condizionare i contenuti delle ispezioni: la valutazione della legittimità dei contratti decentrati non può essere lasciata a valutazioni imperscrutabili, come la qualità di “sfidante” dell’obiettivo gestionale; né può essere lasciata ad incredibili giri di boa, come quello recentissimo dell’Aran proprio sugli incrementi delle risorse variabili, ritenuti possibili per il finanziamento di istituti stabili come i turni;

e)                            la simmetrica precisazione di parametri percentuali o numerici molto chiari per gli incrementi delle risorse variabili, come già previsto dall’articolo 15, comma 2, del Ccnl 1.4.1999;

f)                            l’esclusione di variabili indipendenti dalla gestione della contrattazione decentrata, come il rispetto del patto di stabilità, quali condizioni per il recupero delle somme;

g)                           la previsione di premi ed incentivi per gli enti in regola con le norme sulla contrattazione e simmetrici interventi sanzionatori sugli enti che abbiano attivato i piani di recupero, come ad esempio blocco pluriennale di progressioni orizzontali o il divieto di utilizzo dell’articolo 15, comma 5;

h)                           introduzione di un organismo territorialmente decentrato di controllo preventivo sui contratti; potrebbero essere le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti ad essere chiamate a registrare i contratti, al pari del compito che assolvono le Sezioni Riunite per i contratti nazionali collettivi, oppure appositi nuclei di dirigenti e funzionari locali, terzi rispetto agli enti controllati, posti alle dipendenze funzionali della Corte dei conti.

In questo modo, si otterrebbe una più efficace prevenzione contro una contrattazione non corretta e si eviterebbe un contenzioso giudiziario infinito, caratterizzato da incertezze sugli orientamenti e sugli esiti, che oggettivamente non sono di nessun aiuto ai fini del corretto andamento dell’azione amministrativa.

Luigi Oliveri

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