Dirigenti vassalli della politica nel JobsAct

Luigi Oliveri 20/03/14
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L’idea di una riforma della dirigenza pubblica, sì da trasformarla tutta da dirigenti assunti solo con contratti a tempo determinato si rivelerebbe devastante per l’Italia. Ciò non ha mancato di sottolinearlo di recente Daniel Gros, in un’intervista rilasciata a Tonia Mastrobuoni a La Stampa lo scorso 17 marzo. L’economista è chiarissimo nel suo pensiero, circa l’artata polemica sui “mandrini di Stato: “Penso che questa discussione sia molto pericolosa. Una volta si diceva che i “mandarini” italiani fossero la salvezza dell’Italia, che la classe dirigente nascosta nei ministeri e negli uffici pubblici, di grandissima qualità, fosse uno dei segreti del perché l’Italia andava avanti nonostante tutto. Mi sembrerebbe rischioso sottoporli al potere politico, che è invece sempre stato un punto debole del vostro Paese”.

L’economista francese è tranciante e mette il dito sulla piaga. L’idea di riforma della dirigenza di Renzi è un intento chiarissimo di sottoporre la dirigenza alla politica. Un intento che ha perseguito con estrema disinvoltura, ad esempio, quando era presidente della Provincia di Firenze, dove ha incaricato 4 direttori generali, invece dell’unico ammissibile per legge, con contratti costosissimi, per ottenere da essi acquiescenza ad iniziative che, per esempio, sono costate allo stesso Renzi la condanna per danno erariale (sentenza della Sezione giurisdizionale della Toscana 4.8.2011, n. 282), dovuta all’assunzione nel suo staff ed in quello della giunta di persone, senza concorso, inquadrate come laureati, senza avere la laurea. Il tutto, nel silenzio e con la piena collaborazione di alcuni tra questi direttori generali, del resto anche essi coinvolti nella sentenza di condanna.

Il problema è, a ben vedere, essenzialmente questo. La dirigenza ha il compito fondamentale di assicurare l’attuazione dei programmi politici, garantendo, però, i principi generali di buona amministrazione, parità di trattamento, imparzialità, economicità, efficienza e legalità. Ogni fine politico può essere conseguito, purchè le strade siano quelle corrette.

Molte volte, però, la politica è indotta dalla fretta, dalla necessità di mettersi in evidenza, dalla captazione del consenso, dalle continue campagne elettorali, dai confronti concorrenziali all’interno delle coalizioni e dei partiti, a scegliere strade e percorsi spesso “tortuose”, non sempre rispettose della legalità.

Il dirigente davvero capace non è quello che “accontenta”, facendo finta di non vedere (o, talvolta, non vedendo proprio), ma chi è riesce egualmente a conseguire il risultato, nei tempi e con le modalità corrette, assumendosi la responsabilità anche nei confronti della politica di assolvere alla propria azione nel rispetto dei principi visti sopra, che assicurano il contemperamento degli intenti politici con l’interesse generale.

La visione che ha la politica, invece, è un’altra. Il dirigente “bravo” è quello in “sintonia”, che esegue senza fare storie, perché condivide “politicamente” la “linea”. E, magari, grazie anche a stipendi maggiorati, è disponibile a condividere col politico condanne per danno erariale, così da ridurre l’impatto sulla singola persona.

E’ un modo fuorviante di intendere l’amministrazione. Non solo perché la si trasforma in un sistema di gestione del potere “partitico” e non attento al bene comune, contrastando con gli articoli 97 e 98 della Costituzione, ma perché non si capisce che il danno all’erario non è qualcosa che colpisce politici e dirigenti nelle “loro tasche”, ma è un’inefficienza che riguarda tutti i cittadini. Infatti, si tratta di un cattivo modo di spendere le risorse e di andare fuori dagli obiettivi di interesse generale, che dovrebbero essere il faro dell’azione amministrativa. E per una sentenza di condanna della Corte dei conti, ci sono probabilmente mille e più casi analoghi che non si conoscono e che, dunque, non vengono sanzionati, ma causa di sperperi e inefficienze indicibili.

E’, dunque, totalmente da rigettare l’idea, adesiva all’idea del premier Renzi, di Renato Ruffini, proposta su Il Sole 24 Ore del 19 marzo, nell’articolo “Come riformare la dirigenza Pa”. Essa si basa su alcuni punti, che scorriamo per contestarli uno per uno.

Il primo punto è :“applicare il principio di distinzione dei poteri tra politici e tecnici senza confonderlo con l’idea di separazione. In questo senso occorre non escludere la responsabilità amministrativo-contabile degli organi di indirizzo politico per atti di competenza della dirigenza”.

In poche righe, esattamente il nucleo dei rischi di inefficienza, sviamento dall’interesse pubblico, parzialità visti prima.

Cosa vuol dire applicare la distinzione senza confonderla con la separazione? E’ un semplice artificio retorico, che utilizza due sinonimi aventi identico significato, che lancia un messaggio subliminale. Il dirigente è “distinto” dal politico perché non eletto, ma non ne è “separato”, perché ne deve condividere linea, programma. Fino a giungere anche all’appartenenza per tessera o, come detto sopra, quanto meno assicurare la divisione delle condanne, come emerge dall’ultima parte della proposta, che mira a non escludere la responsabilità amministrativo-contabile degli organi politici per atti di competenza dirigenziale. Insomma, una sorta di ala protettiva, o, comunque, l’assicurazione che anche compiendo atti illegittimi, comunque si divide il più possibile il risarcimento del danno.

Ma, il danno alle casse pubbliche, ai cittadini, all’efficienza, alla correttezza, chi lo risarcirebbe?

Ulteriore idea di Ruffini: “prevedere un albo unico nazionale della dirigenza pubblica, valido per tutte le tipologie di pubblica amministrazione, a cui si accede tramite concorso pubblico per titoli ed esami svolto in diverse sedi come, ad esempio, per le abilitazioni professionali, nelle università. L’inserimento nell’albo non da diritto allo svolgimento d’incarichi dirigenziali, ma è condizione imprescindibile per ricevere incarichi con procedure d’interpello disciplinate dalle singole amministrazioni pubbliche, in modo che siano garantiti i principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione. Tali procedure dovrebbero essere svolte da soggetti terzi, esterni all’amministrazione, appositamente abilitati. Nell’albo accede di diritto chi è già dirigente a tempo indeterminato e a tempo determinato se selezionato con procedure selettive pubbliche. Chi perde l’incarico, se funzionario pubblico torna tale, se esterno alla Pa torna sul mercato del lavoro, se invece già dirigente, dovranno applicarsi forme di tutela e/o di prepensionamento”.

Nn ce ne voglia l’Autore, un caos totalmente in condivisibile. L’idea è già alla base minata dal prendere a riferimento un modello totalmente fallimentare: lo status dei segretari comunali.

La legge sull’ordinamento locale prevede un albo unico dei segretari, al quale i sindaci attingono per gli incarichi. E’ uno spoil system estremamente spinto, che lega l’attività lavorativa dei segretari alla durata del mandato dei sindaci, i quali possono scegliere praticamente senza motivare chi nominare e hanno anche ampia libertà di revocare l’incarico.

Una dipendenza totale e assoluta del segretario dal sindaco, che ha depotenziato in modo vistoso funzioni e prestigio di quel funzionario, ridotto davvero ad essere poco più che un notaio, esecutore delle volontà politiche. Il tentativo di ripristinare l’antica funzione di garante della legalità dei segretari, con le recenti riforme sui controlli interni e l’assegnazione del ruolo di responsabile della corruzione non hanno avuto alcun beneficio, perché la sottomissione alla politica è formidabile.

L’idea è, dunque, perdente in partenza, se si vuole avere una dirigenza capace, efficiente, autonoma. Vincente se, come è evidente vuole Renzi, l’intento è costruire un esercito di yes man.

Non solo. Come sempre, quando si prospettano idee di riforma della PA non mancano prospettive di buoni “affari” per le società di consulenza e “tagliatori di teste”. La proposta del Ruffini prevede l’operato di questi soggetti per aiutare la politica a selezionare dall’albo i dirigenti. Un costo enorme, un bel guadagno per queste società, che si rivelerebbe un totale spreco. E’ perfettamente noto all’esperienza e alle cronache che i soggetti “terzi, esterni alle amministrazioni, appositamente abilitati”, quando sono chiamati a “selezionare” persone da incaricare (ad esempio in società partecipate pubbliche o nei vertici delle Usl), finiscono, stranamente, sempre per selezionare proprio coloro che sono “vicini” o “in quota” alla maggioranza o al politico di turno, sicchè chiunque scommetta sul loro incarico, anche consegnando in anticipo a notai in busta chiusa il nome o i nomi di coloro che saranno selezionati, 9 volte su 10 indovinano.

Inaccettabile, semplicemente inaccettabile, è la parte finale dell’idea, nella quale si propugna la tesi che se qualcuno è “funzionario” e riceva l’incarico dirigenziale (ma come sarebbe possibile, se a monte occorra un’abilitazione? Mistero), una volta concluso il contratto dirigenziale a termine tornerebbe a fare il funzionario. Mentre i dirigenti veri e propri no: in prepensionamento o disoccupati, con forme di tutela. Ma che ragionamento è? Praticamente, l’esortazione ad estendere a normalità il sistema illegittimo applicato a piene mani dall’Agenzia delle entrate di incaricare come dirigenti funzionari che nemmeno avrebbero partecipato a concorsi per la dirigenza? Per altro assicurando loro il paracadute del rientro al lavoro come funzionari? Creando, dunque, due tipi di dirigenza: quella dei furbi, che condurrebbero “finti” contratti a termine, ma in realtà due rapporti di lavoro, uno a tempo indeterminato, quello da funzionario, e l’altro a tempo determinato, quello da dirigente; nonché, quella dei temerari, che assurgerebbero alla qualifica dirigenziale, senza tutele per il caso di chiusura del rapporto di lavoro.

Col bel risultato di ottenere una totale politicizzazione. Il funzionario, essendo sicuro di non perdere il lavoro, si presterebbe ad ogni accondiscendenza verso il politico di turno, per acquisire meriti e sperare di allungare la funzione dirigenziale e indifferente ad un eventuale spoil system dovuto al subentro di una nuova compagine politica, perché mal che vada non perderebbe il lavoro. Il dirigente vere e proprio, che sotto la spada di Damocle del tempo determinato e schiacciato anche dalla presenza dei funzioari-dirigenti, non avrebbe troppa possibilità di assicurare autonomia di giudizio e di azione. Una Waterloo della logica, dell’organizzazione, della Costituzione.

Ancora un’altra idea: “prevedere che, per accedere all’albo, si abbiano titoli di studio specifici come lauree magistrali o master appositi per la dirigenza pubblica nelle diverse discipline; sostenere la formazione continua delle persone iscritte all’albo, prevedendo la necessità di un numero minimo di crediti formativi erogati dacorsiuniversitari appositamente accreditati, validi per la permanenza nell’albo”.

Sarebbe una novità? Ma, si immagina che alla dirigenza, attualmente, si possa accedere senza titoli di studio come la laurea magistrale o master appositi? Il Ruffini sa perfettamente che non è così. Conosce il sistema di reclutamento mediante Scuola superiore dell’amminsitrazione e la rigorosità dei concorsi pubblici.

Non vogliamo pensare che consideri normale ed accettabile la diffusissima ed illegittimissima prassi di incarichi dirigenziali conferiti ad personam, con impiego sbagliato e scorretto dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, a persone anche non laureate.

Questa proposta, dunque, si rivela nel merito corretta, ma nella sostanza inutile, perché i sistemi selettivi, quelli oggi vigenti, se non violati, prevedono già titoli e formazione di alto livello.

Altra idea: “creare un mercato del lavoro pubblico: a. prevedere che, chi è nell’albo, possa accedere a qualsiasi amministrazione pubblica (Centrale, Locale, enti, ecc.); b. creare ruoli aperti superando le dotazioni organiche dirigenziali e limitando gli incarichi ai limiti delle risorse finanziarie con programmazione triennale”.

Un albo è esattamente inconciliabile col concetto di mercato del lavoro. Infatti, un albo è un sistema chiuso, non di mercato. E’ ovvio che l’albo avrebbe solo un senso se qualsiasi amministrazione vi possa accedere. Ma, la pubblica amministrazione è un insieme magmatico ed estremamente complesso. Sbagliando, spesso la si paragona ad un’azienda. Nessuna azienda, però, ha un orizzonte così vasto di produzione, funzioni e competenze. Immaginare il dirigente “buono” per tutto è semplicemente utopistico. Svolgere funzioni diplomatiche alla Farnesina non ha nulla di conciliabile con la gestione dei tributi di un comune.

Per quanto riguarda gli incarichi, il Ruffini sa perfettamente che oggi, sebbene i dirigenti siano assunti, ordinariamente, a tempo indeterminato, i loro incarichi sono a tempo determinato e riferiti alle risorse e alla programmazione. Dunque?

Infine: “stipulare un contratto nazionale unico della dirigenza con livelli retributivi minimi e massimi e, all’interno di questo range, stabile la singola retribuzione con il contratto individuale”.

Un contratto nazionale unico della dirigenza sarebbe auspicabile, per quanto esista già una contrattazione collettiva per comparto, che assolve egregiamente al compito. E fissa già livelli retributivi minimi e massimi.

Il problema consiste nel fatto che i massimi possono essere derogati. E proprio a causa delle deroghe si assiste a stipendi talvolta realmente inaccettabili e sproporzionati.

Forse, il problema del “costo della dirigenza”, per altro eccessivamente enfatizzato perché sulla stampa si prendono a riferimento proprio le retribuzioni faraoniche di manager di società ed enti pubblici economici o di pochissimi dirigenti di massimo vertice statale (come il capo della polizia), lasciando credere che tutti i dirigenti guadagnino cifre iperboliche. Non è affatto così e per ricondurre la spesa entro recinti più accettabili una cosa sola andrebbe fatta: eliminare qualsiasi norma che consenta di derogare ai tetti contrattuali.

Luigi Oliveri

 

 

 

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