Abolizione Province siciliane: il dado è tratto, ma è un salto nel buio

Luigi Oliveri 20/03/13
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Ora che la Sicilia ha passato il Rubicone della cosiddetta abolizione delle province, appare opportuno analizzare meglio la questione, per evidenziare ciò che la stampa generalista non conosce e, dunque, non può dire, e spiegare il perché dell’insensatezza della legge regionale siciliana.

Intanto, occorre sgomberare il campo dal primo equivoco, derivante da una comunicazione imperfetta. La riforma siciliana non fa sparire l’ente intermedio tra regione e comuni.

Una vera e propria abolizione delle province dovrebbe determinare la cancellazione dell’ente intermedio e la ripartizione delle funzioni e competenze proprie di questo tra i due rimanenti, comuni e regione, con netta prevalenza per quest’ultima, considerando il livello sovra comunale delle competenze delle province.

La riforma siciliana, invece, non cancella l’ente intermedio, ma sostituisce alle province i “liberi consorzi”, rimodulando le competenze e funzioni dell’ente intermedio. Che, dunque, resta ben saldo.

Non solo. Al posto di 9 province, sorgeranno un numero di potenziali 33 “liberi consorzi” più tre province regionali. Non proprio un esempio di razionalizzazione per accorpamento.

Vi sono, ovviamente, voci plaudenti (calati junco, ca passa la china) alla riforma, che affermano l’esatto opposto di quanto si sta qui rilevando, come quella di Massimo Costa : “Immagino già la polemica da Bar dello Sport: “Ma come? Togliamo 9 province regionali per fare 23 o 24 Liberi consorzi?”. Ecco, se la sentite dire, questa è una grande, grandissima sciocchezza. Il Consorzio, infatti, non è una micro-provincia (quelle spariscono e basta); esso è un macro-Comune, anzi è forse l’unica soluzione per salvare i 400 comuni siciliani dal dissesto sicuro. In tempi di vacche magre i Comuni si accorpano, pur mantenendo la loro autonomia, per tutte le funzioni a rete sul territorio e, così facendo, ottengono notevolissimi risparmi. È questo uno dei sensi forti della riforma dei Consorzi.

I Consorzi devono fare superare per davvero la logica dell’ente intermedio, non farla sopravvivere sotto mentite spoglie.

La Provincia, con le sue elezioni, la sua politica, il suo governo e sottogoverno, deve semplicemente sparire. Forse i tre consorzi metropolitani possono e devono avere una struttura leggermente diversa, ma di questo ne parleremo dopo”.

Ebbene, il libero consorzio previsto dall’articolo 15 dello Statuto siciliano non è affatto un macro comune, è un ente intermedio, che svolge funzioni sovra comunali. Basta leggere proprio il citato articolo 15 dello Statuto:

ARTICOLO 15

1. Le circoscrizioni provinciali e gli organi ed enti pubblici che ne derivano sono soppressi nell’ambito della Regione siciliana.

2. L‘ordinamento degli enti locali si basa nella Regione stessa sui Comuni e sui liberi Consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria.

3. Nel quadro di tali principi generali spetta alla Regione la legislazione esclusiva e l’esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo degli enti locali”.

Come si nota, il comma 2 del citato articolo costruisce il sistema degli enti locali su tre livelli, esattamente come avviene nel resto del territorio nazionale ed i liberi consorzi sono destinati a subentrare alle circoscrizioni provinciali soppresse.

Il consorzio cui si riferisce, probabilmente, il Costa è l’aggregazione tra comuni per l’esercizio di funzioni. Ma è un’altra cosa. E’, più, semplicemente una forma associativa, per altro ormai residuale, data la preminenza e la preferenza che il legislatore assegna alle unioni di comuni. Per altro, l’ordinamento locale siciliano disciplina i consorzi di funzioni (Art. 382 del Testo coordinato delle leggi regionali relative all’ordinamento degli enti locali; la disciplina dei consorzi si rifà all’articolo 25 della legge n. 142/1990 recepito con modifiche con l’art. 1, comma 1, lett. e), della legge regionale n. 48/1991 art. 5, decreto legge n. 361/1995 convertito dalla legge n. 437/1995), col quale i comuni stabiliscono di gestire insieme le proprie funzioni.

Per altro, in Sicilia non mancano, purtroppo, esperienze di forme consortili semplicemente devastanti. Basti pensare ai consorzi AA.TT.OO. “che nella sola Sicilia hanno prodotto un debito, non ancora estinto, di circa 1 miliardo e 200 milioni di euro” (Massimo Greco, Dalle Province Regionali siciliane ai Liberi Consorzi di Comuni, in http://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=3074).

Sui “liberi consorzi” l’ossessione contro le province sta facendo commettere al legislatore siciliano un errore clamoroso, non solo istituzionale, ma anche semplicemente storico.

Come visto poco sopra, se l’intento della riforma fosse il rafforzamento dei comuni, mediante una spinta verso forme associative, il problema era già risolto, in quanto l’ordinamento locale siciliano prevede già, come visto, consorzi e unioni di comuni.

I “liberi consorzi” di cui parla lo statuto siciliano sono istituto del tutto diverso. La chiave di lettura per comprenderlo sono il comma 1 del già visto articolo 15 e l’articolo 21, del quale si riporta il testo:

ARTICOLO 21

1. Il Presidente è Capo del Governo regionale e rappresenta la Regione.

2. Egli rappresenta altresì nella Regione il Governo dello Stato, che può tuttavia inviare temporaneamente propri commissari per la esplicazione di singole funzioni statali.

3. Col rango di Ministro partecipa al Consiglio dei Ministri, con voto deliberativo nelle materie che interessano la Regione”.

Fondamentale è il comma 2 di tale disposizione. Per comprendere la questione occorre ricordare un elemento che a molti non è noto: lo statuto siciliano è di molto antecedente alla Costituzione: approvato con regio decreto luogotenenziale 15 maggio 1946, n. 455 (pubblicato nella G.U. del Regno d’Italia n. 133-3 del10 giugno 1946), convertito in legge costituzionale26 febbraio 1948, n. 2 (pubblicata nella GURI n. 58 del9 marzo 1948). Lo statuto è stato il frutto della complessissima e particolare storia dell’autonomia siciliana del dopoguerra ed uno tra gli strumenti per evitare che la Sicilia andasse letteralmente alla deriva nel Mediterraneo, staccandosi dall’Italia.

Ora, la Sicilia ha da sempre storicamente mal tollerato la presenza dello Stato, in particolare dello Stato unitario, che ha imposto coscrizione obbligatoria, riforme agrarie incompiute, imposte e balzelli, mantenendo il pugno di ferro in territori estremamente complessi come quelli siciliani con le “odiate” prefetture.

Ecco, le “circoscrizioni provinciali e gli organi ed enti pubblici che ne derivano” di cui parla l’articolo 15, comma 1, dello statuto regionale altro non sono se non le articolazioni periferiche dello Stato, le circoscrizioni delle prefetture e degli altri organi ed enti statali, sui confini dei quali vennero disegnate anche le province, quali enti locali.

Il disegno dello statuto regionale era, allora, eliminare dal territorio siciliano questi “presìdi” dello Stato centrale, per costituire un sistema di governo e locale a direzione e regolazione interamente regionali. Tanto è vero che, ai sensi dell’articolo 21, comma 2, dello statuto, l’unica autorità di Governo dello Stato nella regione doveva essere il Presidente della regione, qualificato come Ministro laddove partecipi alle sedute del Consiglio dei ministri riguardanti questioni connesse alla Sicilia.

Nel 1946 non c’erano le unioni di comuni ed i consorzi comunali erano accennati in un disegno sfumato dal vecchio ordinamento locale. I “liberi consorzi” avrebbero dovuto essere enti sovra comunali, “liberi” non solo perché liberamente istituibili dai comuni, ma perché liberati dalla forzatura del disegno organizzativo statale, mal tollerato.

Sia l’articolo 15, sia l’articolo 21 dello statuto siciliano sono stati attuati malamente e solo in minima parte. Tanto è vero che le province in Sicilia sono sopravvissute come disegnate dallo Stato fino al 1986, quando con la legge regionale 9 vennero istituite le “province regionali”, qualificate, ai sensi dello statuto regionale, “liberi consorzi di comuni”.

Le province erano “regionali” in quanto costituite e regolate dalla normativa siciliana, non, quindi, retaggio di disciplina ed ordinamento imposto dallo Stato.

Certo, la legge regionale 9/1986 non sfugge a quel sentore di “gattopardesco”, derivante dall’effetto finale, che fu mantenere sostanzialmente fermo l’assetto delle vecchie province, tanto che l’impressione che se ne ebbe fu (ed è ancora) quella di un semplicissimo cambio di denominazione.

In effetti, la legge regionale 9/1986 è rimasta lettera morta, proprio nella parte in cui attribuisce ai comuni un ruolo fondamentale nella costituzione, modifica e regolazione delle funzioni della provincia, che avrebbe potuto connotarsi fortemente come “regionale” e regolata dal “basso”. L’articolo 5[1] della legge assegnava ai comuni la possibilità di modificare le circoscrizioni. Mai fatto. L’articolo 15[2] consentiva l’avvio virtuoso di gestioni “comuni”, cioè associate, su iniziativa comunale: nemmeno l’ombra.

Gli strumenti, dunque, per rendere le province realmente “regionali”, a servizio dei comuni e su iniziativa di questi c’erano. Non sono stati sfruttati.

Non si capisce, allora, per quale ragione enti come i “liberi consorzi” dovrebbero funzionare meglio. Si tratta, come visto prima, di un retaggio risalente al 1946 (67 anni fa), in assenza totale ed assoluta di un ordinamento locale e, soprattutto, di una finanza locale diversissimi, in assenza delle regole sul patto di stabilità, dell’Unione Europea e dell’Euro.

Condizioni totalmente diverse, che rendono i liberi consorzi, sul nascere, da un lato un doppione non meglio qualificabile di forme associative già esistenti (consorzi di funzioni e unioni di comuni). Dall’altro, pur sempre ente di secondo livello, per altro, però, più debole delle province, perché più piccolo, frammentato, caratterizzato da competenze incerte e frammiste con quelle comunali.

Un disastro organizzativo, realizzato per sventolare il vessillo dell’abolizone delle province. Un’abolizione falsa, perché il livello locale intermedio resta, anche se configurato in altro modo.

Per risparmiare i “costi della politica” vi potevano essere strade ben più semplici e lineari, quali quella di modificare l’assetto degli organi di governo delle province, ferme restando le province stesse, rendendoli, come per i consorzi, di “secondo grado”, emanazione non del voto del corpo elettorale, ma dei consigli comunali. Oppure, prevedere l’assoluta gratuità delle cariche. Abbinando a ciò il totale divieto dei costi della politica “di risulta”: dirigenti a tempo determinato “fiduciari”, consulenti, uffici stampa, portavoce, uffici di staff, segreterie particolari cooptati. E, al contempo, attivando gli strumenti previsti dalla legge sulle province “regionali”.

Secondo quanto emerso dalla stampa, la manovra sulle province, per altro soggetta ad ulteriori disposizioni normative attuative e, dunque, di fatto non ancora attiva, determinerebbe un risparmio di 50 milioni, corrispondenti alle spese per indennità e gettoni degli amministratori. Cifra sempre importante, conseguibile come visto prima anche senza abolire le province, comunque pari allo 0,0062% della spesa pubblica italiana (805 miliardi nel 2013).

Per altro, è una stima che lascia qualche perplessità, visto che la spesa complessiva di tutte le province per indennità e gettoni degli amministratori è stimata dall’Upi in 104 milioni di euro.

In ogni caso, resta il problema del carico degli oneri che l’eliminazione delle province comporta, argomento che, chissà perché, i sostenitori dell’eliminazione delle province ad ogni costo non accennano ad affrontare e men che meno a risolvere. Complessivamente le province italiane hanno da un onere per rimborso di mutui di 500 milioni all’anno ed affrontano circa 3 milioni di spese in conto capitale. Tutti fattori che incidono negativamente sul patto di stabilità.

Abolite le province in Sicilia, la quota parte di quelle spese andrebbe ripartita agli enti subentranti, comuni regione e liberi consorzi. Con quali regole? Con quali effetti sul patto?La regione Sicilia, sotto questo aspetto, non può né legiferare né intervenire, perché la potestà normativa è in capo allo Stato, se non all’Europa.

Non è dato sapere, ma questo valeva anche per i progetti di riforma che il Governo Monti ha avviato tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, come l’abolizione delle province possa regolare sul piano della finanza e della contabilità le ricadute conseguenti. Non si sa come le entrate delle province ed i trasferimenti statali e regionali possano essere distribuiti tra gli enti subentranti, per il sostegno delle funzioni loro assegnate.

Insomma, per attuare una disposizione di 67 anni fa, nata in un contesto economico, sociale, normativo e istituzionale morto e sepolto, pur di assecondare l’onda di campagne di stampa ossessive e le urla da palco di non pochi esponenti politici, la Sicilia compie un vero e proprio salto nel buio.

Il tema non consiste tanto nella scelta di cancellare le province, quanto nel non cancellare realmente l’ente intermedio, che viene sostituito dai liberi consorzi, e, soprattutto, nel non aver determinato bene né come distribuire le funzioni provinciali e disciplinare gli effetti finaziari.

Il rischio è che il vessillo dell’abolizione delle province, oggi utile per consolidare o accrescere in modo facile il consenso, possa entro pochi mesi trasformarsi in una bandiera bianca di resa all’inefficienza organizzativa e finanziaria della scelta.


[1] delle province regionali La costituzione di ciascuna provincia regionale è promossa da uno o più comuni ricompresi in una medesima area contraddistinta dalle caratteristiche di cui all’art. 4, mediante delibere dei rispettivi consigli su una specifica, identica, motivata proposta, da adottarsi, con il voto favorevole della maggioranza dei consiglieri assegnati. Le delibere di cui al comma precedente debbono essere adottate nel corso del primo semestre del 1987. (1) Le delibere devono contenere l’indicazione dell’ambito territoriale dell’istituenda provincia regionale, avente caratteristiche di continuità territoriale ed una popolazione residente di almeno 230 mila abitanti riducibile a non meno di 180 mila allorchè ricorrano particolari ragioni storiche, sociali ed economiche, nonchè la designazione del capoluogo. La popolazione residente nei comuni è quella risultante dai registri di popolazione. La mancata adozione delle delibere entro il termine di cui al secondo comma equivale alla proposta di costituirsi in libero consorzio con i comuni ricadenti entro l’ambito territoriale della disciolta provincia e con il medesimo capoluogo, semprechè sussistano i requisiti di cui all’art. 4 ed al terzo comma del presente articolo. 2 E’ fatta salva la facoltà dei singoli comuni di richiedere, entro gli stessi termini e nel rispetto delle medesime modalità procedurali, l’aggregazione ad altra istituenda provincia, semprechè sussistano i requisiti di cui all’art. 4 ed al terzo comma del presente articolo. Le delibere, munite del riscontro tutorio, sono trasmesse all’Assessorato regionale degli enti locali. Il riscontro tutorio sulle suddette delibere è esclusivamente di legittimità sulla regolarità delle adunanze e delle votazioni dei consigli comunali.

[2] Art. 15 Gestione comuni I comuni appartenenti ad una medesima provincia regionale possono – ove per le relative materie non si provveda già a termini dell’art. 13 – stabilire fra loro, anche con l’intervento della provincia regionale, gestioni comuni al fine di: a) predisporre ed adottare unitariamente i piani territoriali di rispettiva competenza; b) realizzare l’esercizio congiunto di servizi, anche attraverso la costituzione di specifiche unità di gestione; c) utilizzare congiuntamente beni e servizi; d) far fronte in modo coordinato ad esigenze tecniche particolari, quali l’informazione automatizzata, l’addestramento del relativo personale ed ogni altra esigenza per la quale non sia necessario costituire strutture associate specifiche. Le gestioni comuni sono deliberate dai consigli comunali e provinciali interessati, unitamente al relativo regolamento, a maggioranza assoluta dei loro componenti. Il regolamento della gestione comune deve prevedere: 1) la sede, le attività ed i servizi da gestire congiuntamente; 2) l’istituzione, la composizione e le competenze dell’organo comune deliberante; 3) l’organo monocratico responsabile della gestione; 4) la disciplina dei rapporti finanziari e patrimoniali; le norme per il recesso di un comune o per l’adesione di altri; i modi e le forme di organizzazione ed utilizzazione del personale dipendente degli enti interessati; 5) i poteri di iniziative e di proposte degli enti associati, il diritto di informazione e le modalità di accesso agli atti della gestione comune da parte degli enti stessi e dei rispettivi consiglieri, nei limiti stabiliti dalla legge. Almeno una volta l’anno è indetta una conferenza dei consigli dei comuni interessati, in seduta pubblica, per discutere sull’attività e sui programmi della gestione comune.

Luigi Oliveri

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