Province sì, province no, province forse…

Luigi Oliveri 18/11/11
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Il nuovo Governo non poteva certamente sottrarsi al mantra dell’abolizione delle province. Il tema è da considerare di stretta attualità e di imprescindibile soluzione, perché una fonte autorevolissima, che detta da sempre la linea dei governi, lo richiede. L’Europa, penserete voi? No, Gianantonio Stella che con Aldo Rizzo continua ad insistere che le province vanno abolite, perché “costano dai 14 ai 17 miliardi di euro”.

L’imprescindibile fonte delle iniziative legislative da ultimo si è espressa sul Corriere della sera del 14 novembre scorso, medesimo giorno nel quale un altro giornalista, Roberto Bagnoli osservava che l’abolizione delle province è una misura spettacolare e di alto valore simbolico, ma dal basso impatto economico.

Se nemmeno il Corriere della sera riesce ad essere d’accordo con se stesso, vuol veramente dire che l’abolizione delle province è più un impulso, che non una concreta e, soprattutto, meditata valutazione di opportunità.

D’altra parte, non si può confondere il concetto di “costo”, con quello di “spesa”. E’ un approccio totalmente sbagliato e fuorviante, sulla base del quale, inquinando le informazioni, si lascia credere al sillogismo secondo il quale abolite le province, che “costano” dai 14 ai 17 miliardi di euro, lo Stato risparmierà appunto la medesima somma. E’ un sillogismo falso, esattamente come quello, famosissimo, ai sensi del quale poiché una forchetta ha tre denti e pure mio nonno ha tre denti, mio nonno è una forchetta.

Le province non costano dai 14 ai 17 miliardi di euro, bensì “spendono” una serie di risorse, per svolgere i loro servizi. Sul tema, chi scrive è già intervenuto mesi addietro su La Voce.info[1], spiegando che, stando ai dati forniti dall’Unione delle province italiane (meno “ufficiali” di Gianantonio Stella, per carità, ma occorre talvolta arrangiarsi con ciò che si ha…) le province spendono circa 12 miliardi di euro all’anno, dei quali circa 8 miliardi e mezzo per spesa corrente, circa 3 miliardi per spese in conto capitale e circa mezzo miliardo per rimborso di prestiti (tutte spese con trend discendente dal 2008. I “costi” sono legati al funzionamento delle attività ed è di circa 2,5 miliardi di euro relativi ai circa 54.000 dipendenti, oltre ai 113 milioni di euro connessi ai costi della politica veri e propri, dovuti a indennità e gettoni di presenza per gli amministratori. L’Upi ha ritenuto che, escludendo il personale, i costi veri e propri di funzionamento, oltre a quelli relativi agli organi di governo, non vadano oltre i 750 milioni di euro l’anno. L’abolizione delle province, tuttavia, potrebbe (si sottolinea, potrebbe) comportare minori spese per appalti di servizi finalizzati alla logistica ed al funzionamento degli uffici, sicchè una stima ottimistica potrebbe giungere al risultato di un risparmio non superiore ai 2 miliardi.

In merito a questo, è certo ed incontestabile che comunque se l’obiettivo di un risparmio di questo tipo andrebbe in ogni caso perseguito. Tuttavia:

a) 2 miliardi non sono 17;

b) se l’obiettivo è conseguire risparmi, non è detto che sia un’imposizione cercare di ottenere una minore spesa di 2 miliardi circa proprio eliminando d’emblée le province.

Sul tema, anche chi ha tentato di prodursi in soluzioni istituzionali appare quanto meno incerto. Basterebbe considerare che il disegno di legge presentato in Parlamento dal precedente Governo sulla modifica della Costituzione per abolire le province non contiene, nemmeno nelle relazioni di accompagnamento, la minima stima di quali risparmi deriverebbero dall’iniziativa. Anche perché, il ddl costituzionale abolisce le province, sì, ma demanda alle regioni il compito di costituire al loro posto forme associative comunali, per altro guidate da organi di governo a carica elettiva! Il pericolo evidentissimo è che:

a) il processo di chiusura delle province sarebbe lento, graduale e costosissimo: basti pensare alla quantità immensa di atti per il passaggio del personale, dei beni, dei contratti, dei debiti, del patrimonio da un ente all’altro e, dunque, per non meno di tre anni gli effetti di risparmio potrebbero essere annullati o fortemente pregiudicati dai costi amministrativi micidiali da affrontare;

b) alla fine, si potrebbe spendere tanto quanto prima, se non di più, visto che nulla vieterebbe alle regioni di costituire, laddove v’era una sola provincia, un numero imprecisato di forme associative comunali.

D’altra parte, anche il Governo appena insediato deve (comprensibilmente) farsi un’dea veramente chiara. Nel discorso al Senato il presidente del consiglio ancora designato Monti sul merito ha affermato: “Ritengo inoltre necessario ridurre le sovrapposizioni tra i livelli decisionali e favorire la gestione integrata dei servizi per gli enti locali di minori dimensioni. Il riordino delle competenze delle Province può essere disposto con legge ordinaria. La prevista specifica modifica della Costituzione potrà completare il processo, consentendone la completa eliminazione, così come prevedono gli impegni presi con l’Europa”.

Le affermazioni contenute in questo passaggio difficilmente si tengono insieme. Giustissimo è considerare necessario ridurre le sovrapposizioni tra livelli decisionali e, allo scopo, integrare i servizi degli enti locali di minori dimensioni. Ma, allo scopo, allora occorrerebbe puntare non sull’abolizione delle province, bensì sulla modifica della loro struttura e delle funzioni, in rapporto agli altri enti locali.

Occorre chiedersi se non sia opportuno, prima di abolire le province, porsi il problema della permanenza di consorzi imbriferi, consorzi di bonifica, autorità d’ambito, autorità di bacino, unioni di comuni, consorzi, comunità montane. L’eliminazione di questi (e molti altri analoghi) “livelli decisionali” risulterebbe piuttosto semplice proprio se se ne conferissero, come apparirebbe naturale, le competenze alle province, invece di abolirle.

In secondo luogo, per evitare le sovrapposizioni occorrerebbe compiere un passo decisivo, sin qui solo timidamente perseguito da qualsiasi governo, perché si è dovuto obbedire al “feticcio” dell’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali: la legge deve disporre una griglia di competenze assolutamente tassativa, che privilegi la vocazione dei comuni ad essere enti a competenza generale, chiarendo che le province, al contrario, non debbono e possono esserlo, risultando così indotte ad occuparsi solo ed esclusivamente delle competenze analiticamente loro assegnate dalla legge. Via assessorati alla pace, alla gioventù, ai rapporti con l’estero, alle pari opportunità, alla promozione degli spettacoli, all’immigrazione tutte funzioni già svolte da altri livelli di governo, in particolare comuni e Stato.

Si afferma che l’abolizione delle province potrebbe rappresentare l’opportunità di trasferire il personale verso amministrazioni in carenza di personale, come gli uffici giudiziari o altre amministrazioni decentrate dello Stato.

E’ un’idea valida solo in astratto, simile a quella espressa più brutalmente nella puntata di Ballarò del 15 novembre da Maurizio Belpietro, il quale affermò che adottata la scelta di abolire le province, per ottenere realmente i conseguenti risparmi, ci si sarebbe dovuti guardare dal trasferire il personale alle regioni o ai comuni, dovendo prevedere strumenti per consentire il passaggio dei dipendenti provinciali, invece, nel settore privato.

Ora, a parte la considerazione che licenziare e mettere sul mercato 54.000 persone tutte d’un colpo risulterebbe problematico (nel caso della crisi-Alitalia ci si allarmò, giustamente, tantissimo per il pericolo di licenziamenti per 7.000 lavoratori), le due affermazioni sono figlie di un identico errore di prospettiva: pensare che le province siano lì a non far assolutamente nulla e che, dunque, con della loro abolizione nessuno si accorgerebbe, così che il personale potrebbe facilmente essere mandato presso altre amministrazioni o lasciato nelle onde del mercato del lavoro.

Si tratta di idee frutto della, comprensibile ma non giustificabile, scarsa conoscenza delle funzioni e dei servizi svolti dalle province, molti dei quali, per altro, “sbolognate” loro, ma con un parlar forbito si dovrebbe dire “conferite”, dallo Stato e dalle regioni. Se si vuole affrontare seriamente il problema dell’abolizione delle province, sarebbe il caso di informarsi bene su cosa fanno, per capire che qualche altro ente non può non sostituirsi a loro per continuare a rendere quei servizi e non ledere, dunque, i cittadini che ne fruiscono.

Insomma, le valutazioni d compiere pare oggettivamente dovrebbero esser ben più ponderate di facili articoli di giornale che vellicano il fastidio di tutti i cittadini verso le istituzioni.


[1] Abolire le province? Si risparmia poco, in http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002444-351.html.

Luigi Oliveri

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