Dal Vertice di Roma al Consiglio Ue, la strada per salvare l’euro

Redazione 28/06/12
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Anche se continua a focalizzare su di sé gran parte dell’attenzione internazionale, la Grecia non è già più da tempo l’unico problema di un’Unione europea sempre più nel mirino della speculazione internazionale (con le grandi banche d’affari americane, i fondi speculativi e le agenzie di rating a guidare il gioco per indebolirla e disarticolarla). Anzi, non è nemmeno il problema più grave. Irlanda e Portogallo a parte (“salvati” rispettivamente nel novembre 2010 e nel maggio 2011), oggi le vere preoccupazioni sono costituite dall’intervento a sostegno delle banche spagnole e, più in generale, dalle modalità con cui far ripartire la crescita per dare duratura sostenibilità al necessario riordino dei conti pubblici.

Al Vertice di Roma svoltosi venerdi 22 giugno, i quattro politici rappresentanti delle più importanti economie dell’area Euro (nell’ordine, la Cancelliera Merkel per la Germania, il Presidente Hollande per la Francia, i Premier Monti per l’Italia e Rajoy per la Spagna), pur tra alcune divergenze hanno però ribadito un punto fondamentale riguardo l’irreversibilità del progetto dell’euro come moneta comune, e preso alcune misure per metterlo al riparo dalla speculazione.

Nonostante la cattiva accoglienza da parte della più autorevole stampa americana (New York Times, Washington Post, Wall Street Journal) e britannica (Financial Times), al Vertice di Roma i quattro principali leader europei, Merkel compresa, hanno trovato un’intesa – che dovrà essere formalizzata in sede di Consiglio europeo di Bruxelles di fine mese – su due misure chiave che dovrebbero servire a far ripartire la crescita su scala continentale:

1) un Piano di investimenti da 120/130 miliardi di euro (pari all’1% del Pil europeo);

2) l’adozione della Tobin Tax sulle transazioni finanziarie.

La Tobin Tax, nella fattispecie, è stata prevista proprio per contribuire al Piano europeo per la crescita, che tra le proprie fonti di finanziamento, in base a quanto finora deciso dai “Quattro”, al momento annovera:

60 miliardi di euro di prestiti da parte della Bei (Banca europea degli investimenti), in fase di ricapitalizzazione;

55 miliardi provenienti da fondi strutturali Ue;

5 miliardi dal nuovo strumento dei project bond.

Si attende ora la prova dei mercati, per vedere se tutto ciò sarà sufficiente a frenare gli assalti della speculazione contro i Paesi più in difficoltà dell’Eurozona. Potrebbe non bastare nel caso il Consiglio Ue di Bruxelles del 28 e 29 giugno non faccia seguire altre misure a salvaguardia della Grecia e della banche spagnole (che necessitano di una ricapitalizzazione stimata attorno ai 100 miliardi di euro) e, contestualmente, non acceleri nella direzione di dare all’Europa una governance veramente unitaria.

In questo senso, sono accesissime le trattative sulla proposta di Mario Monti di impiegare i capitali del Fondo Salva Stati transitorio (l’Efsf, European financial stability facility) per comprare direttamente i Titoli di Stato e calmierare così gli spread di quei Paesi che, come l’Italia, stanno facendo riforme strutturali ma vengono ancora presi di mira dalla speculazione. Francia favorevole, ma Germania contraria.

L’alternativa potrebbe essere quella di far precedere l’istituzione degli eurobond dal Redemption Fund e dai cosiddetti eurobill. Il primo è un fondo con garanzia dell’Unione europea nel suo insieme (e non dei singoli Stati) dove far confluire tutta la parte eccedente il 60% del rapporto tra debito pubblico e Pil di ogni Paese membro Ue, con l’impegno ad eliminarlo nell’arco di 20 anni (come previsto anche dal Fiscal Compact del marzo 2012).

Gli eurobill sono invece una versione depotenziata e “sperimentale” di eurobond, titoli comuni con rendimenti stabiliti sulla base della media dei debiti pubblici di tutti gli Stati dell’area euro e con scadenze brevi, che ogni Paese potrebbe emettere in quantità (all’inizio) limitate e “sorvegliate”.

È auspicabile, pertanto, che i leader europei si muovano contemporaneamente su due strade, complementari l’una all’altra e destinate infine ad incontrarsi: una per garantire nel breve termine la stabilizzazione finanziaria dell’Eurozona, ed un’altra – indicata negli ultimi tempi con sempre maggior vigore, significativamente, dalla Cancelliera Merkel – che porti in prospettiva verso l’unione politica del Vecchio Continente. I tempi in questo secondo caso saranno inevitabilmente più lunghi ma proprio per questo vanno garantiti da scadenze certe, con la previsione di un’architettura che, date le peculiarità dei molti popoli europei, non potrà che essere federale (gli “Stati Uniti d’Europa”). Saranno necessari, a tal fine, atti comportanti significative cessioni di sovranità da parte degli Stati membri. A cominciare da controlli sovra-nazionali sulla politica fiscale di ogni Governo (è della Merkel la proposta di affidare alla Corte europea di Strasburgo il controllo e la possibilità di invalidare i bilanci nazionali se non rispettosi dei vincoli comunitari), passando per una più stretta unione bancaria e per l’integrazione delle politiche di bilancio, fino alla previsione della figura di un Presidente eletto da tutti i cittadini dell’Unione europea e una politica estera (e di difesa) comune.

Stiamo parlando di “fantapolitica”? Certo è che, in questo senso, la crisi economica dei debiti sta dando una forte accelerazione allo scenario verso quella che, sulla base della capacità e della lungimiranza dei leader continentali, potrà tradursi o nella fine o nel consolidamento dell’Unione europea.

Storicamente, è spesso dalle situazioni di più forte rottura che nascono e, a volte, hanno successo le costruzioni politiche di più ampio respiro. Così è stato, ad esempio, dopo il 1945, quando un’Europa in macerie e divisa in blocchi ha avuto la forza ed il coraggio, nella sua parte occidentale, di avviare un percorso di integrazione tra ex nemici che solo fino a pochi anni prima sembrava impossibile anche quasi solo immaginare. E così pure quando, in seguito alla caduta del Muro di Berlino nel novembre del 1989, è iniziata l’apertura verso quei Paesi dell’Europa orientale che fino ad allora avevano vissuto nell’orbita dell’Unione Sovietica.

Riesce difficile credere che uno dei Continenti più economicamente avanzati al mondo come l’Europa (se unita), con uno dei più elevati livelli di cultura e con il maggior numero di cittadini/consumatori consapevoli, decida di suicidarsi per l’ennesima volta (dopo le due terribili Guerre Mondiali del ‘900). Ma la rotta verso un porto sicuro è ancora lunga.

 

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