Chi è “l’individuo fragile”?

Redazione 09/01/16
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Esce in un momento storico critico, che vede in particolare un aspro scontro fra la cultura occidentale e il fondamentalismo religioso di matrice islamica,  che ha in odio i valori individualistici, L’individuo fragile di Andrea Millefiorini, Apogeo Education 2016. (http://www.apogeoeducation.com/l-individuo-fragile.html).

L’Autore, docente di Sociologia politica e Sociologia generale presso la Seconda Università di Napoli, ripercorre la genesi e lo sviluppo del processo di individualizzazione dalla Grecia del V-IV secolo a.C. alle trasformazioni degli ultimi decenni, che hanno segnato il passaggio a una “società di individui” ormai pienamente affrancati dai legami comunitari tradizionali ma, forse proprio per questo, più fragili e soli.

Abbiamo intervistato Andrea Millefiorini, che ci ha anticipato alcuni concetti chiave del libro.

1) In-di-vi-dua-liz-za-zio-ne: otto sillabe. Che cosa significa, in otto parole?

1. Emancipazione

2. Liberazione

3. Eguaglianza

4. Indipendenza

5. Autocoscienza

6. Autodeterminazione

7. Responsabilizzazione

8. Partecipazione

2) Perché definisce questo processo “la cartina di tornasole della modernità”?

Vi sono tanti indicatori che vengono spesso utilizzati per “misurare”, a volte anche in termini numerici, il livello di modernizzazione di una società. Ad esempio il livello di sviluppo dei commerci, l’industrializzazione, il grado di alfabetizzazione della popolazione, gli investimenti in capitale manifatturiero e in infrastrutture,  il livello di democratizzazione, il decentramento politico-amministrativo, le autonomie concesse alle minoranze etniche, linguistiche, religiose, il livello di secolarizzazione culturale, lo sviluppo e l’avanzamento della scienza e della tecnologia. Tuttavia, la comparazione storico-sociologica mostra che questi indicatori, se presi singolarmente, non sono in grado di dirci se la società cui si riferiscono sia effettivamente avviata su di un cammino certo e irreversibile di modernizzazione.  Ad esempio, potremmo essere in presenza di una società in cui lo Stato ha avviato importanti politiche di alfabetizzazione, senza che però a tale processo si accompagni un altrettanto significativo decollo economico-industriale (vedi molti Stati del cosiddetto “socialismo reale” in Europa dell’Est nel Novecento); oppure, società nella quali il mercato e l’industrializzazione iniziano, seppure con fatica, a farsi strada, devono al contempo fare i conti con regimi politici che non solo non conoscono significativi processi di democratizzazione, ma che negano anche alcuni importanti diritti individuali (ad esempio la Spagna franchista o la Cina contemporanea).

Affinché una società possa essere considerata, in termini sociologici, sulla strada definitiva della modernizzazione, occorrerebbe che tutti gli indicatori che abbiamo sopra citato, più molti altri, siano tra loro concordanti nel mostrare questa tendenza, e quest’ultima dovrebbe inoltre essere confermata in più di una rilevazione a distanza di un periodo significativo tra l’una e l’altra.

Se invece prendiamo in considerazione il livello di individualizzazione, ci accorgiamo che quanto più esso è in fase avanzata, tanto più tutti gli altri indicatori che abbiamo sopra menzionato tendono a convergere verso il polo della modernizzazione. Basta citare casi come gli Stati Uniti, l’Inghilterra, l’Olanda, la Francia, i paesi scandinavi. Oppure, andando indietro nel tempo, l’Italia del Rinascimento o, ancora più in là, le città-Stato italiane come Venezia, Firenze, Milano ai tempi delle autonomie comunali.

La prima obiezione che in genere viene mossa ad una siffatta impostazione all’analisi dei processi di modernizzazione è la seguente: questa tesi non può essere presa in considerazione per due motivi: prima di tutto in quanto è ben difficile quantificare, o comunque ponderare, misurare, il processo di individualizzazione; in secondo luogo, e in conseguenza di ciò, in quanto essa non è verificabile né, tantomeno, falsificabile.

A questa obiezione è possibile controbattere che, sebbene sia difficile individuare dei misuratori quantitativi certi di tale processo (per quanto non impossibile: pensiamo, ad esempio, alla percentuale di divorzi sul totale dei matrimoni, o alla capacità di spesa di un giovane di 14 anni oggi rispetto ad un suo coetaneo dei primi del Novecento, o ancora alla percentuale di matrimoni tra soggetti di classi sociali diverse rispetto al totale dei matrimoni, etc.) è invece del tutto possibile individuare degli indicatori qualitativi del fenomeno in questione. Come ci ha insegnato uno dei padri della Sociologia, Émile Durkheim, quando non si dispone di criteri controllabili di quantificazione, è possibile ricercare nei sistemi normativi, giuridici, della società in questione, dei contenuti che confermino o smentiscano la tendenza culturale in questione. Il diritto, secondo Durkheim, costituisce la rappresentazione più chiara, e per giunta in forma scritta, dei valori presenti in una determinata cultura. Esso infatti ha il compito di preservare, tutelare e difendere  quei valori da coloro che li dovessero trasgredire, punendoli con delle sanzioni.

Ebbene, se osserviamo la storia dell’affermazione dei diritti individuali nei codici normativi, non possiamo non constatare che  essa segue pedissequamente la storia delle durissime lotte politiche e sociali per far valere, al cospetto delle autorità tradizionali che per secoli hanno accampato il diritto di controllare,  sorvegliare,  determinare la vita delle persone, la libertà di autodeterminazione dei singoli. Ciò è avvenuto, come ha ben spiegato Thomas Marshall, prima sul piano dei diritti civili (libertà economiche, di movimento, garanzie e tutele alla proprietà privata, etc.), poi su quello dei diritti politici (libertà di manifestazione del pensiero, libertà di associazione, di manifestazione) e infine su quello dei diritti sociali (diritto all’istruzione, alla salute, alla previdenza, all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, etc.). L’avanzare dei diritti individuali è stato, sempre e inesorabilmente, garanzia dell’avanzare della logica del libero scambio economico, della democratizzazione, della crescita del benessere, dell’istruzione, della cura della persona, etc.

3) Chi è “l’individuo fragile” del titolo?

Siamo tutti noi, probabilmente le ultime generazioni, parlo degli adulti ovviamente (i giovani tendono ad essere fragili ex definitione), ancor più di quelle che le hanno precedute.

4) Nel suo libro lei analizza una serie di “crisi di rigetto” contro l’individualismo, di segno molto diverso, avvenute nel corso dei secoli; ve ne sono anche oggi, e da dove provengono?

Certamente sì. La più virulenta è costituita oggi dal fondamentalismo religioso di matrice islamica,  il quale ha in odio i valori individualistici occidentali tanto quanto, prima di lui, li ebbero le ideologie antiborghesi: fascismo, nazismo, comunismo, o come le forme di tradizionalismo religioso esasperato, presenti in misura maggiore o minore un po’ in tutte le religioni, a cominciare dal tradizionalismo cattolico (si pensi ad esempio al movimento lefebvriano), oggi meno forte rispetto a ieri, ma non dimenticando quello ebraico ortodosso, o alcune forme di induismo particolarmente restrittive, ancora oggi presenti nella società indiana.

5) A suo avviso, il modello di società basato sull’individualismo è minacciato in maggior misura dalle “crisi di rigetto” esterne o dalle sue fragilità interne?

Domanda profonda quanto difficile. Il problema, innanzitutto, è mettersi d’accordo su cosa sia “esterno” e cosa “interno” alle società individualistiche. Mi spiego:  se ad esempio consideriamo ciò che in passato è stato il comunismo, dobbiamo considerarlo un prodotto “interno” , o una minaccia provenuta dall’esterno, come l’Unione Sovietica? Qui le due cose sono strettamente intrecciate. Il comunismo è stato tanto un prodotto delle società borghesi quanto una minaccia proveniente, successivamente, da Stati che rifiutavano ideologicamente l’adesione al modello occidentale. A questo proposito vale la considerazione di Luciano Pellicani, il quale osserva che il capitalismo genera continuamente dal proprio stesso seno i suoi nemici.

Discorso in parte diverso vale per il fenomeno dello jihadismo: qui la minaccia è evidentemente di natura  esterna, e tuttavia si rifletta sul fatto che, dall’esterno, esso riesce a scatenare all’interno stesso delle società liberaldemocratiche forme di rigetto contro tale modello, al punto da riuscire a reclutare tra le sue fila i futuri carnefici, oltre che di esseri umani, anche delle libertà e dei diritti individuali.

Ciò che possiamo affermare è che in passato le minacce sono provenute  in misura maggiore più dall’interno che dall’esterno. Oggi sembra di assistere ad una situazione opposta. Quanto al domani, se il fondamentalismo islamico dovesse rappresentare una minaccia sempre più forte, con conseguenze concrete per la vita delle persone in carne ed ossa, questo potrebbe paradossalmente, più che indebolire il modello attuale, oggi abbastanza fiaccato da un certo rilassamento e da una certa perdita di auto-identificazione con la sua storia, risvegliarne la coscienza e il sentimento di autodifesa. I modelli individualistici appaiono infatti, ad una prima minaccia esterna, a prima vista deboli rispetto ad essa. Si pensi a cosa significò, negli anni Venti e Trenta, la marea montante dei totalitarismi in Europa e, successivamente, l’attacco militare portato al cuore delle democrazie da parte delle forze dell’Asse, Germania, Italia e Giappone. Inizialmente sembrò che per le liberaldemocrazie, così come sino ad allora erano state conosciute, fosse scoccata l’ora finale. E tuttavia queste, alla lunga, dimostrarono di possedere al proprio interno più forze e più risorse di quante l’ideologia totalitaria non fosse riuscita a infonderne alle società da essa dominate, ad eccezione dell’Unione Sovietica, la quale tuttavia, va detto, combatteva per la propria stessa sopravvivenza contro regimi altrettanto totalitari.

6) In questi anni abbiamo imparato quanto sia difficile “esportare la democrazia”; secondo lei è possibile, in che modo e in quali condizioni, “esportare” l’individualismo?

L’individualismo non è che può essere o vada esportato. L’individualismo si esporta da solo. Così come il capitalismo non è stato costruito, ma “si è costruito” in modo auto-propulsivo (Nikolaj Bucharin), senza piani o progetti predefiniti da qualcuno in particolare, altrettanto accade per l’individualismo, che può essere considerato in fondo una delle conseguenze apportate nei sistemi culturali dalla affermazione del capitalismo.

Non occorrono molte argomentazioni per convincersene: si pensi a quanto le giovani generazioni dei paesi extra-occidentali, influenzate dai modelli individualistici, li inseguano , li interiorizzino e li mettano in atto. E non mi riferisco qui tanto, o solo, ai modelli consumistici, anch’essi figli del processo di individualizzazione, quanto soprattutto alla richiesta di autonomia, di emancipazione, di autodeterminazione rispetto ad istituzioni tradizionali sovraordinate rispetto all’individuo: l’autorità patriarcale, religiosa, politica.

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