Lincenziare nella PA i “furbetti” si può e si deve

Luigi Oliveri 06/11/15
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Ma nelle pubbliche amministrazioni è possibile o no licenziare chi falsifica la presenza in servizio?

Da diversi giorni questa domanda viene continuamente posta e riproposta, specie all’indomani delle dichiarazioni del Ministro della funzione pubblica Marianna Madia, che ha apertamente indicato la necessità di licenziare i dipendenti pubblici autori della falsificazione dell’attestazione della presenza in servizio.

Il Ministro non ha pronunciato parole per nulla clamorose. E’ perfettamente normale, infatti, che una così grave mancanza ai doveri d’ufficio comporti la risoluzione del rapporto di lavoro.

La “notizia” dunque non sta certo in ciò che ha dichiarato il Ministro, quanto nel “contesto”. Per i media fa clamore la circostanza che il Ministro responsabile principale del lavoro nella pubblica amministrazione invochi il licenziamento dei “furbetti del cartellino” in un ambito, quello del lavoro pubblico, nel quale il numero dei licenziamenti disciplinari risulta molto basso, poche centinaia all’anno.

Abbassatosi il polverone delle dichiarazioni e dei rilanci sulla stampa e sui media, occorre tuttavia provare a rispondere alla domanda posta all’inizio. E la risposta è facilissima: sì, è possibile, anzi doveroso, licenziare i dipendenti che, in vario modo, simulino di essere presenti in servizio, mentre invece sono in tutt’altre faccende affaccendati.

Per meglio chiarire la risposta, allora, è fondamentale un’altra domanda: per licenziare gli assenteisti occorre una nuova legge, o, meglio, occorre attendere necessariamente che entri in vigore il decreto attuativo della legge “madia” 124/2015? Anche in questo caso la risposta è semplice: no.

L’ordinamento contiene già disposizioni chiarissime che:

a)      prevedono il licenziamento per i “furbetti del cartellino”;

b)      non subordinano l’azione disciplinare al procedimento penale.

Leggiamo cosa stabilisce l’articolo 55-quater, del d.lgd 165/2009, come introdotto dalla “riforma-Brunetta”, il d.lgs 150/2009:

“licenziamento disciplinare:

1. Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi:

a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia;

b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione;

c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio;

d) falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera;

e) reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui;

f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l’estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro.

2. Il licenziamento in sede disciplinare è disposto, altresì, nel caso di prestazione lavorativa, riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio, per la quale l’amministrazione di appartenenza formula, ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, una valutazione di insufficiente rendimento e questo è dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento di cui all’articolo 54.

3. Nei casi di cui al comma 1, lettere a), d), e) ed f), il licenziamento è senza preavviso”.

Più chiara di così la norma non potrebbe essere. Proprio la situazione verificatasi a San Remo è oggetto, da 6 anni, di una disposizione di facilissima comprensione: l’assenteista che in qualsiasi modo attesti falsamente di essere presente in servizio deve essere licenziato senza nemmeno preavviso.

Ovviamente, il licenziamento non può essere comminato senza attivare il procedimento disciplinare, perché occorre raccogliere gli elementi di prova e garantire sempre il diritto alla difesa.

Altra domanda: il procedimento disciplinare, allora, deve essere sospeso se, contestualmente, pende un procedimento penale per i medesimi fatti? Ribadiamo, la risposta è no. E questa risposta discende dall’articolo 55-ter del d.lgs 165/2001, sempre come introdotto dal d.lgs 150/2009:

Art. 55-ter. Rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale

1. Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni di minore gravità, di cui all’articolo 55-bis, comma 1, primo periodo, non è ammessa la sospensione del procedimento. Per le infrazioni di maggiore gravità, di cui all’articolo 55-bis, comma 1, secondo periodo, l’ufficio competente, nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale, salva la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente.

2. Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l’irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l’autorità competente, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale.

3. Se il procedimento disciplinare si conclude con l’archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l’autorità competente riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale. Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa.

4. Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3 il procedimento disciplinare è, rispettivamente, ripreso o riaperto entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione di appartenenza del lavoratore ovvero dalla presentazione dell’istanza di riapertura ed è concluso entro centottanta giorni dalla ripresa o dalla riapertura. La ripresa o la riapertura avvengono mediante il rinnovo della contestazione dell’addebito da parte dell’autorità disciplinare competente ed il procedimento prosegue secondo quanto previsto nell’articolo 55-bis. Ai fini delle determinazioni conclusive, l’autorità procedente, nel procedimento disciplinare ripreso o riaperto, applica le disposizioni dell’articolo 653, commi 1 ed 1-bis, del codice di procedura penale”.

Dunque, il comune di San Remo, come qualsiasi altra amministrazione, a seguito dell’accertamento della violazione disciplinare non ha che da avviare l’azione disciplinare e a seguito di essa adottare il provvedimento, senza trovare ostacolo nell’azione penale.

E questo è possibile e doveroso non da oggi, ma da ben sei anni. Dunque, si dimostra che l’attuazione della legge delega 124/2015 non è affatto necessaria allo scopo, anche se sarà ovviamente benvenuta se in grado di inserire elementi utili.

E’ l’articolo 17, comma 1, lettera s), a contenere i criteri di delega riguardanti la riforma del procedimento disciplinare, invitando il legislatore delegato ad introdurre “norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare”.

Gli aspetti presi in considerazione dalla norma, dunque, sono tre:

1)      accelerare il procedimento disciplinare;

2)      rendere concreta l’azione disciplinare;

3)      rendere certi i tempi di espletamento e conclusione.

Soffermiamoci sui punti 1) e 3), l’accelerazione dei tempi e la loro certezza. Sui media è passato il messaggio che nella PA non si riesce a licenziare nemmeno in casi eclatanti come quelli di San Remo per l’eccessiva lunghezza dell’azione disciplinare. Sarà vero? No, non è vero.

I tempi dell’azione disciplinare sono definiti dall’articolo 55-bis del d.lgs 165/2001 (sempre come introdotto dal d.lgs 150/2009) nei commi 2 e 4.

Cosa dispone il comma 2? “Il responsabile, con qualifica dirigenziale, della struttura in cui il dipendente lavora, anche in posizione di comando o di fuori ruolo, quando ha notizia di comportamenti punibili con taluna delle sanzioni disciplinari di cui al comma 1, primo periodo, senza indugio e comunque non oltre venti giorni contesta per iscritto l’addebito al dipendente medesimo e lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, con l’eventuale assistenza di un procuratore ovvero di un rappresentante dell’associazione sindacale cui il lavoratore aderisce o conferisce mandato, con un preavviso di almeno dieci giorni. Entro il termine fissato, il dipendente convocato, se non intende presentarsi, può inviare una memoria scritta o, in caso di grave ed oggettivo impedimento, formulare motivata istanza di rinvio del termine per l’esercizio della sua difesa. Dopo l’espletamento dell’eventuale ulteriore attività istruttoria, il responsabile della struttura conclude il procedimento, con l’atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione, entro sessanta giorni dalla contestazione dell’addebito. In caso di differimento superiore a dieci giorni del termine a difesa, per impedimento del dipendente, il termine per la conclusione del procedimento è prorogato in misura corrispondente. Il differimento può essere disposto per una sola volta nel corso del procedimento. La violazione dei termini stabiliti nel presente comma comporta, per l’amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare ovvero, per il dipendente, dall’esercizio del diritto di difesa”.

Dunque tutti i procedimenti disciplinari che si chiudano con la sanzione massima della sospensione dal servizio e privazione della retribuzione per 10 giorni:

a)                          debbono concludersi con un provvedimento espresso: l’archiviazione oppure l’irrogazione della sanzione;

b)                          debbono concludersi entro 60 giorni dalla contestazione, a pena di decadenza.

Il successivo comma 4 si occupa dei procedimenti disciplinari per le sanzioni che partano dalla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per 11 giorni, fino al licenziamento e dispone che “Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari ai sensi del comma 1, secondo periodo. Il predetto ufficio contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento secondo quanto previsto nel comma 2, ma, se la sanzione da applicare è più grave di quelle di cui al comma 1, primo periodo, con applicazione di termini pari al doppio di quelli ivi stabiliti e salva l’eventuale sospensione ai sensi dell’articolo 55-ter. Il termine per la contestazione dell’addebito decorre dalla data di ricezione degli atti trasmessi ai sensi del comma 3 ovvero dalla data nella quale l’ufficio ha altrimenti acquisito notizia dell’infrazione, mentre la decorrenza del termine per la conclusione del procedimento resta comunque fissata alla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora. La violazione dei termini di cui al presente comma comporta, per l’amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare ovvero, per il dipendente, dall’esercizio del diritto di difesa”.

Dunque, nel caso di queste sanzioni più gravi i procedimenti disciplinari:

a)                          debbono concludersi con un provvedimento espresso: l’archiviazione oppure l’irrogazione della sanzione;

b)                          debbono concludersi entro 120 giorni dalla contestazione, a pena di decadenza.

Poiché così stanno le cose, è dimostrato che:

  1. i tempi di espletamento del procedimento disciplinare sono certi;
  2. i tempi di conclusione sono altrettanto certi;
  3. la durata del procedimento, che al massimo non può andare oltre i 120 giorni, non è affatto lunga.

Naturalmente, si può anche decidere di ridurre i termini già molto brevi esistenti. Tuttavia, la lunghezza del procedimento e l’assenza di certezza della conclusione sono all’evidenza un falso problema.

Resta, allora, l’altra questione, la necessità di rendere “concreta l’azione disciplinare”. Ora, come faccia un’azione formalizzata e gestita in termini di garanzia del contraddittorio come attualmente disciplinata a non essere considerata “concreta” risulta piuttosto misterioso.

Tutto sta, evidentemente, nel mettersi d’accordo sul significato da attribuire all’aggettivo “concreta”.

Dalle indiscrezioni dei media relative ai contenuti che si vorrebbe dare al decreto delegato attuativo della legge 124/2015, si apprende che il concetto di “azione concreta”, secondo il Governo, coincide con l’obbligo di concludere l’azione disciplinare con una sanzione.

Se così staranno le cose, l’incostituzionalità, oltre che l’illogicità, di simile impostazione sono evidenti. In un sistema improntato al principio del “giusto procedimento” è impensabile che un’azione sanzionatoria si apra dovendo necessariamente concludersi con l’irrogazione della sanzione. Il diritto alla difesa sarebbe irrimediabilmente compromesso.

Persino il d.lgs 23/2015 modificando radicalmente la disciplina dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevede l’ipotesi della difesa in giudizio, tendente a dimostrare quanto meno l’insussistenza del fatto addebitato, quando all’articolo 3, comma 2, dispone che “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria […]”.

Ritenere che sia una semplificazione del procedimento disciplinare configurarlo come azione che imponga necessariamente la sua conclusione con una sanzione è totalmente fuori strada. Significa privare il diritto alla difesa, vincolare l’attività amministrativa e, di fatto, demandare solo al giudice del lavoro il compito di verificare la sussistenza o meno dei fatti. Col risultato di creare un intasamento ulteriore del contenzioso giurisdizionale.

Tra l’altro, la norma richiamata del d.lgs 23/2015 svela un altro equivoco. Qualcuno ritiene che estendendo (come in realtà impone l’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001) al lavoro pubblico la riforma dell’articolo 18 uno dei problemi connessi al licenziamento sarebbe risolto.

Infatti, la vulgata è che i dirigenti pubblici o i componenti degli uffici per i procedimenti disciplinari non licenzino per paura della responsabilità erariale che deriverebbe dalla reintegrazione del dipendente licenziato.

Come visto, però, se in giudizio il dipendente licenziato per giustificato motivo soggettivo, qual è l’ipotesi della falsificazione della presenza in servizio, dimostri l’insussistenza del fatto materiale, la reintegra è comunque ammessa.

In ogni caso, la riforma dell’articolo 18 anche laddove non permetta la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro impone comunque l’erogazione di un’indennità risarcitoria, se il licenziamento sia considerato illegittimo.

Quindi, il d.lgs 23/2015 non risolverebbe per nulla il problema della responsabilità erariale incombente su chi adotti un provvedimento di licenziamento illegittimo. Infatti, la responsabilità erariale scatta sia che vi sia la reintegrazione, sia che sia accertato l’obbligo di pagare al lavoratore l’indennità risarcitoria.

Indubbiamente il peso della responsabilità erariale sui dirigenti-datori di lavoro è rilevante e incide in modo probabilmente significativo sul numero dei licenziamenti nella PA.

Ma, per risolvere questo, che è un problema vero, non servono a nulla norme procedurali come quelle derivanti dall’attuazione dell’articolo 17, comma 1, lettera s), della legge 124/2015. Occorrerebbe rivedere molto a fondo l’intero sistema della responsabilità amministrativa. Delle due l’una: se il dirigente pubblico agisce come un privato datore di lavoro, allora non può incorrere in responsabilità ulteriori e diverse da quelle incombenti sul privato datore di lavoro, il quale non risponde, per reintegre o licenziamenti illegittimi, alla Corte dei conti. Altrimenti, se non si intende fare a meno della soggezione della dirigenza, anche in quanto datrice di lavoro, alla responsabilità erariale nei casi di licenziamento illegittimo, sarebbe meglio uscire dall’equivoco e prendere atto che i dirigenti non sono per nulla da considerare alla stregua dei datori di lavoro privati.

Ai sensi dell’articolo 55-sexies, comma 4, del d.lgs 165/2001 (sempre come innovato dalla riforma Brunetta) “La responsabilità civile eventualmente configurabile a carico del dirigente in relazione a profili di illiceità nelle determinazioni concernenti lo svolgimento del procedimento disciplinare è limitata, in conformità ai principi generali, ai casi di dolo o colpa grave”. Dunque, il legislatore ha introdotto un caso di esenzione da responsabilità civile. Se non si pensa a qualcosa di simile anche per la responsabilità erariale, il sistema non otterrà particolari progressi.

Luigi Oliveri

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