Politica: perchè i giovani se ne fregano?

Letizia Pieri 17/10/15
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Perchè i giovani sono sempre meno interessati alla politica? Quanto gioca in questo scenario la mancanza di fiducia delle nuove generazioni nei confronti di partiti, sindacati ma anche volontariato o comitati?

Ce lo spiega Elisa Lello che insegna Sociologia Politica all’Università di Urbino Carlo Bo, dove collabora alle attività di ricerca promosse da LaPolis, Laboratorio di Studi Politici e Sociali diretto da Ilvo Diamanti, ed è l’autrice del volume “La triste gioventù. Ritratto politico di una generazione”.

1)      Il progressivo allontanamento dei giovani dalla politica rappresentativa (partiti, Parlamento, Governo) è un tema di cui si parla molto negli ultimi anni. Secondo lei quali sono le principali cause che hanno contribuito ad allargare tale distacco?

La loro distanza è frutto soprattutto di quella che, da decenni, gli adulti stessi hanno frapposto tra sé stessi e la politica rappresentativa. Tuttavia, i giovani oggi sono ancor meno disposti degli adulti a concedere fiducia a istituzioni ed esponenti politici, perché ritengono che la politica sia inevitabilmente inquinata da ricerca di potere e privilegi particolaristici, disinteresse verso le domande dei cittadini nonché da un eccesso di “fanatismo”. La loro disapprovazione, tuttavia, non li induce a mobilitarsi, bensì a tenersene a distanza. Perché, tanto, “non serve a nulla”: credo che il punto sia proprio questo, cioè la convinzione che non si possa cambiare ciò che non funziona.

2)      Questo disinteresse da parte dei giovani riguarda soltanto la partecipazione alla politica rappresentativa (partiti, Parlamento, Governo) o investe anche la sfera della partecipazione non convenzionale (ad esempio comitati o volontariato)?

La letteratura solitamente dice proprio questo: i giovani sono sì lontani dalla partecipazione istituzionalizzata (da partiti e sindacati innanzitutto) ma più propensi all’impegno diretto (movimenti, associazioni, consumo critico…). Tuttavia, uno degli elementi di novità scaturiti dalla ricerca è che i giovani appaiono più scettici degli adulti anche nei confronti dell’attivismo spontaneo. Quella stessa disillusione investe anche questo versante della partecipazione. Pesa, talvolta, anche la delusione per precedenti esperienze di mobilitazione (come le manifestazioni studentesche) che non hanno prodotto i risultati sperati.

3)      Un modello politico come quello portato avanti dal Movimento Cinque Stelle, che vuole erigersi a portavoce delle richieste che i giovano rivolgono alla sfera politica, secondo lei può riavvicinarli alla politica istituzionale o viceversa contribuire a farne emergere i limiti?

Dipende dalle strategie che il M5S sceglierà di darsi. Certo, alcune diagnosi che etichettano il MoVimento come mero populismo sono a mio parere un po’ troppo frettolose, perché ne trascurano l’ambivalenza. Solo tra qualche anno potremmo valutare se il suo ruolo sia stato quello di alimentare ulteriormente sfiducia e “antipolitica” oppure se, incanalando il dissenso dentro le istituzioni, abbia contribuito a riallacciare un dialogo ormai da troppo tempo sfilacciato tra queste e una fetta importante di cittadini, al cui interno troviamo molti giovani.

4)      L’emersione, nel corso degli ultimi anni, della cosiddetta “questione giovanile”, vale a dire la tematizzazione dei fattori socio-economici che contraddistinguono la situazione di svantaggio e precarietà in cui versa larga parte dei giovani, ha contribuito ad allargare il divario giovani-politica o al contrario ha aiutato a far riemergere la loro domanda di partecipazione?

A tratti il disagio generazionale è sfociato in alcune proteste, come nel 2008, con l’Onda (anomala). Però non è emersa una nuova soggettività politica, qualcosa di simile ad un movimento sociale, capace di dare voce alle domande dei giovani e di allargare il fronte della protesta al di là di alcuni segmenti specifici come gli studenti. I giovani sono convinti di vivere in un contesto povero di opportunità e sono preoccupati per il proprio futuro professionale: sono altrettanto convinti, però, di non potere cambiare lo stato delle cose. Ecco perché alcuni – e sono sempre di più – pensano di cercare fortuna all’estero. Ma tra gli altri – e sono la stragrande maggioranza – prevalgono risposte volte all’adattamento e al ridimensionamento di sogni e aspettative. E di questo, credo, si parla troppo poco. Non abbiamo ancora preso consapevolezza delle conseguenze – su tutti i piani – di una generazione che si sente costretta a decurtare i propri sogni.

5)      Potranno le nuove generazioni diventare le protagoniste di una nuova stagione di mobilitazione e protesta?

Tutto è possibile, però solitamente, perché questo avvenga, sono necessari due elementi: un fronte interno compatto e un avversario chiaramente identificabile. La situazione dei giovani è esattamente l’opposto. Da una parte, sono poco coesi al proprio interno, fanno fatica a riconoscersi nei propri coetanei, probabilmente perché hanno interiorizzato l’immagine, prevalentemente negativa, che il dibattito pubblico ha prodotto sul loro conto (del resto si parla di giovani quasi sempre a proposito di eventi deprecabili, dal bullismo all’esibizionismo mediatico fino ai “bamboccioni”). D’altra parte, sebbene riconoscano le responsabilità delle generazioni precedenti, è molto difficile per loro indirizzare verso i loro padri e le loro madri una protesta collettiva. Perché sono, da una parte, economicamente dipendenti dai loro genitori e sempre più a lungo e, dall’altra, concordi con i valori e le visioni del mondo di questi ultimi. Il conflitto inter-generazionale è molto lontano, semmai ora il conflitto, o meglio l’ansia di distinguersi, corre dentro la generazione.

Letizia Pieri

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