Associazioni tra Comuni siciliani: obbligatorio non farle

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L’art. 41 della legge regionale siciliana n. 15/2015 sancisce il divieto ai Comuni di istituire nuove entità, comunque denominate, ivi compresi gli organismi di cui agli articoli 31 (Consorzi) e 32 (Unioni) del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, per l’esercizio associato di funzioni, fatte salve quelle previste per legge nonché le convenzioni per l’espletamento di servizi.

La dizione “nuove entità” vuole essere omnicomprensiva ma suona eterea, trascendente e vagamente fantascientifica.

L’interpretazione corretta di quel “nonché” collega le convenzioni alle forme associative previste per legge e, quindi, ancora possibili (e non già ai Consorzi ed Unioni e, quindi, vietate).

Nella diversa interpretazione (collegamento ai Consorzi ed Unione e, quindi, vietate), le conseguenze sarebbero nefaste. Basti pensare che il divieto si estenderebbe a tutte le forme di collaborazione tra Comuni, comprese le convenzioni di segreteria ed a quelle previste dall’art. 14 del Ccnl del 22 gennaio 2004.

Mentre il legislatore nazionale rende obbligatorie le associazioni tra Comuni per ottenere economie di scala, il legislatore regionale decide di vietarne quelle di nuova istituzione.

Si tratta di una previsione inopportuna e sulla cui legittimità costituzionale, sorgono diversi dubbi.

Il divieto lede l’autonomia, costituzionalmente garantita, degli enti locali, inserendo una proibizione per i Comuni siciliani, rispetto a quelli del resto d’Italia.

La riforma del titolo V della Costituzione afferma i principi di sussidarietà, differenziazione e adeguatezza e le associazioni tra Comuni rispondono proprio alla necessità di un livello più ampio di quello dei piccoli comuni per offrire i servizi e svolgere funzioni in maniera efficace, efficiente ed economica.

La stessa “Carta europea delle Autonomie Locali” sancisce il diritto di associazione delle collettività locali.

La “Carta”, pur essendo stata definita dalla giurisprudenza della Corte costituzionale come un documento programmatico e generico che non impegna direttamente gli Stati dell’Unione, ha una rilevante valenza politico-culturale.

Secondo qualcuno, poi, la Carta europea delle Autonomie Locali è un atto di diritto internazionale recepito dal nostro ordinamento con legge ordinaria e, quindi, può farsi ricadere nell’alveo delle previsioni dell’art. 117, primo comma, della Costituzione che impone al legislatore statale e regionale il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.

Il secondo comma dell’art. 41 affida ai Liberi Consorzi ed alle Città metropolitana una funzione di regolamentazione dell’attività dei Comuni, che non si riscontra nell’architettura costituzionale.

Le Province, ed oggi le Città metropolitane e i Liberi Consorzi, non sono istituzioni sovraordinate ai Comuni e, pertanto, non hanno il potere di disciplinarne l’organizzazione. Si tratta di soggetti che non hanno potestà legislativa ma solo statutaria e regolamentare, limitata a disciplinare la propria attività e non quella di altre autonomie locali.

Sicuramente più logico, e non viziato da dubbi di legittimità costituzionale, sarebbe stato un intervento sulle forme d’incentivazione, prevedendo, ad esempio, quali siano le funzioni da gestire in maniera associata, per ottenere il contributo regionale.

Un riferimento preciso potrebbero essere le funzioni individuate come fondamentali dall’art. 19 del D.L. n. 95/2012:

a)      organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo;

b)      organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale;

c)      catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente;

d)     la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale;

e)      attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi;

f)       l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi;

g)      progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’articolo 118, quarto comma, della Costituzione;

h)      edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici;

i)        polizia municipale e polizia amministrativa locale;

j)        tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali, nell’esercizio delle funzioni di competenza statale;

k)      i servizi in materia statistica.

La Corte Costituzionale, nell’esaminare il ricorso della regione Sardegna (come la Sicilia dotata di autonomie speciale), ha rilevato la legittimità costituzionale dell’art. 19 del D.L. 95/2012, evidenziando che l’art. 24-bis, prevede una “Clausola di salvaguardia”: “… le disposizioni del presente decreto si applicano alle predette regioni e province autonome secondo le procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, anche con riferimento agli enti locali delle autonomie speciali che esercitano le funzioni in materia di finanza locale, agli enti ed organismi strumentali dei predetti enti territoriali e agli altri enti o organismi ad ordinamento regionale o provinciale”.

La questione d’illegittimità costituzionale sollevata dalla Sardegna (Corte Costituzionale, sentenza n. 22/2014) è stata ritenuta non fondata proprio giacché la legge nazionale prevede che le Regioni a statuto speciale possono applicare la gestione associata obbligatoria, secondo le procedure previste dai propri statuti.

Il giudice delle leggi non ha detto che le regioni a statuto speciale possono non applicare la normativa sull’associazionismo obbligatorio, ma solamente che la applicano nei tempi e secondo le modalità stabilite dal legislatore regionale.

In generale la Corte Costituzionale ha ricordato che il legislatore statale può, con una disciplina di principio, imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali.

Tali vincoli sono rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali quando sono ragionevoli e proporzionali all’obiettivo e stabiliscano un “limite complessivo”.

 

Luciano Catania

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