La canna fumaria: cosa dice la legge

Rosalba Vitale 20/09/15
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La canna fumaria ha trovato disciplina nel d.p.r. n. 412/1993 e più nello specifico il comma 9 dell’art. 5, che recita:

Gli impianti termici siti negli edifici costituiti da più unità immobiliari devono essere collegati ad appositi camini, canne fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti di combustione, con sbocco sopra il tetto dell’edificio alla quota prescritta dalla regolamentazione tecnica vigente, fatto salvo quanto previsto dal periodo seguente. Qualora si installino generatori di calore a gas a condensazione che, per valori di prestazione energetica e di emissioni nei prodotti della combustione, appartengano alla classe ad alta efficienza energetica, più efficiente e meno inquinante, prevista dalla pertinente norma tecnica di prodotto UNI EN 297 e/o UNI EN 483 e/o UNI EN 15502, il posizionamento dei terminali di tiraggio avviene in conformità alla vigente norma tecnica UNI 7129 e successive integrazioni”.

Ed ancora nell’art 1102 c.c., che dispone quanto segue: “ ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso (Cass. 23 febbraio 2012 n. 2741)”.

Tanto premesso, il caso de quo, riguardava dei condomini che citavano in giudizio un’ immobiliare srl di Bologna lamentando il fatto che la  convenuta aveva apposto sul muro comune una canna fumaria nell’ ambito di una corte di un palazzo di pregio, oggetto di vincolo per interesse storico- artistico ed architettonico, che costituiva sfregio della facciata della medesima corte, previsto peraltro dall’ art. 11 del regolamento condominiale che le canne fumarie dovevano essere poste     all’ interno delle singole unità immobiliari; aggiungevano, altresì, che le canna fumaria era stata apposta ad una distanza ridotta dalla loro proprietà, determinando una riduzione della visibilità superiore della finestra del loro appartamento, oltre ad avere imposto una servitù di stillicidio di acque sporche derivanti da una condensazione dei fumi, da cui derivavano infiltrazioni di acqua sui loro muri ne chiedevano la rimozione.

In primo grado e successivamente in Appello la società veniva condannata al ripristino dello luoghi.

Infatti, la Corte territoriale motivava la propria decisione sul presupposto che: “la canna fumaria in contestazione, nonostante le condizioni della facciata, presentava dimensioni non trascurabili, essendo posta all’ interno di una struttura prefabbricata, per cui alterava l’ estetica dell’ edificio e rappresentava un elemento di grave degrado, tanto da turbare il godimento della luce proveniente dalla finestra collocata sotto la canna fumaria, con diminuzione della luminosità”.

Contro tale decisione i convenuti proponevano ricorso per Cassazione, lamentando, vizi di motivazione, violazione degli artt. 1102, 1105 e 1122 c.c. poste in relazione alle norme relative alle distanze legali di cui agli artt. 905, 906 e 890 c.c.

In particolare, a loro dire errava il giudice di merito per non aver considerato, la loro offerta  di internare a proprie spese la parte orizzontale della canna fumaria posta sul lato superiore della finestra dei resistenti, nonché la circostanza che l’ utilizzo del muro comune della corte interna   dell’ immobile condominiale costituiva un diritto della ricorrente per assolvere alla primaria funzione di riscaldare l’ appartamento di sua proprietà.

Sulla questione, la Corte di Cassazione, II sez. civile, con la sentenza 17072/15 si pronunciava  stabilendo che: “ nel condominio di edifici le parti comuni formano oggetto, a favore di tutti i condomini, di un compossesso pro indiviso il quale si esercita diversamente a seconda le cose siano oggettivamente utili alle singole unità immobiliari cui siano collegate materialmente o per destinazione funzionale (suolo, fondazioni, muri maestri, oggettivamente utili per la statica) oppure siano soggettivamente utili nel senso che la loro unione materiale o la destinazione funzionale ai piani o porzioni di piano dipende dall’ attività dei rispettivi proprietari ; nel primo caso l’ esercizio del possesso consiste nel beneficio che il piano o la porzione di piano trae da tale utilità, nel secondo caso si risolve nell’ espletamento della predetta attività da parte del proprietario. Ciò posto, il godimento delle cose comuni da parte dei singoli condomini assurge ad oggetto di tutela possessoria quando uno di loro abbia alterato o violato, senza il consenso degli altri condomini ed in loro pregiudizio, lo stato di fatto o la destinazione della cosa oggetto del comune possesso, in modo da impedire o da restringere il godimento spettante a ciascun compossessore pro indiviso sulla cosa medesima (Cass. 26 gennaio 2000 n. 855). La modifica di una parte comune e della sua destinazione ad opera di taluno dei condomini, sottraendo la cosa alla sua specifica funzione e quindi al compossesso di tutti i condomini, legittima di conseguenza gli altri condomini all’ esperimento dell’ azione di reintegrazione per conseguire la riduzione della cosa al pristino stato in modo che essa possa continuare a fornire quella utilitas alla quale era asservita anteriormente alla contestata modificazione senza che sia necessaria la specifica prova del possesso di detta parte quando risulti che essa consista in una porzione immobiliare in cui l’ edificio si articola ( Cass. 13 luglio 1993 n. 7691)”.

Altresì, si precisava che: “ l’ uso particolare che il comproprietario faccia del bene comune non può considerarsi estraneo alla destinazione normale dell’ area, a condizione però che si verifichi in concreto che, per le dimensioni del manufatto o per altre ragioni di fatto, tale uso non alteri              l’ utilizzazione del cortile praticata dagli altri comproprietari né escluda per gli stessi la possibilità di fare del bene medesimo un analogo uso particolare ( Cass. 20 agosto 2002 n. 12262).

Ne consegue,  che a giudizio della Suprema Corte era stato superato il limite previsto dall’ art. 1102 c.c.

Giova ricordare che alcuni orientamenti giurisprudenziali in caso di contrasto tra norme davano preferenza all’uso delle cose comuni (Cass. civ., sez. II, 23gennaio 1995, n. 724, Trib. civ. Parma, ord. 3 gennaio 1997).

Ed ancora: “ l’appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale individua una modifica della cosa comune conforme alla destinazione della stessa che ciascun condomino può apportare a sua cura e spese, ma a condizione che, tra l’altro, non alteri il decoro architettonico, fenomeno – quest’ultimo – che si verifica non già quando si mutano le originarie linee architettoniche, ma quando la nuova opera si rifletta negativamente sull’insieme dell’armonico aspetto dello stabile (Trib. Busto Arsizio 8 aprile 2011)”.

6) ADR CONSUMATORI

Il decreto legislativo n. 130/2015 attuativo della Direttiva 2013/11/UE del Parlamento e del Consiglio europeo ha introdotto la procedura di risoluzione alternativa e stragiudiziale (Alternative dispute resolution) delle liti riguardanti i consumatori.

La disposizione si  applica  alle procedure  volontarie  di   composizione   extragiudiziale   per   la risoluzione, anche in via telematica, delle controversie nazionali  e transfrontaliere,  tra  consumatori  e  professionisti  residenti   e stabiliti nell’Unione europea, nell’ambito  delle  quali  l’organismo ADR propone una soluzione o riunisce le parti al  fine  di  agevolare una  soluzione  amichevole.

Ne rimangono esclusi:

  • le procedure presso sistemi di  trattamento  dei  reclami  dei consumatori gestiti dal professionista;
  • i servizi non economici d’interesse generale;
  • le controversie fra professionisti;
  • la negoziazione diretta tra consumatore e professionista;
  • i tentativi di conciliazione  giudiziale  per  la  composizione della  controversia  nel  corso di   un procedimento   giudiziario riguardante la controversia stessa;
  • le procedure avviate da un professionista nei confronti di  un consumatore;
  • i servizi di assistenza sanitaria, prestati  da  professionisti sanitari a pazienti, al fine di valutare, mantenere o ristabilire  il loro stato di salute, compresa la prescrizione, la somministrazione e la fornitura di medicinali e dispositivi medici;
  • gli organismi pubblici di istruzione superiore o di  formazione continua.

All’ art. 141-bis è previsto che l’ Organismo ADR può rifiutare la presa in carico di una causa per i seguenti motivi:

a) il consumatore non ha tentato di  contattare  il  professionista interessato per discutere il proprio reclamo ne’ cercato, come  primo passo, di risolvere la questione direttamente con il professionista;   b) la controversia e’ futile o temeraria;

c) la controversia e’ in corso di esame o è  già  stata  esaminata da un altro organismo ADR o da un organo giurisdizionale;

d) il valore della controversia e’  inferiore  o  superiore  a  una soglia monetaria prestabilita a un livello tale  da  non  nuocere  in modo significativo all’accesso del  consumatore  al  trattamento  dei reclami;

e) il consumatore non ha presentato la  domanda  all’organismo  ADR entro un limite di tempo prestabilito, che non deve essere  inferiore a un anno dalla data in cui il consumatore ha presentato  il  reclamo al professionista;

f) il trattamento di questo tipo di  controversia  rischierebbe  di nuocere significativamente all’efficace funzionamento  dell’organismo ADR.

La procedura ADR inizia con un comunicazione di avvio procedura fatta dall’ Organismo alle parti,     in cui si informano altresì che le parti non hanno l’ obbligo dell’ assistenza legale.

Successivamente, Adr proporrà una soluzione o riunirà le parti al fine di agevolare una composizione amichevole della lite sul quale le parti possono esprimere la propria adesione o meno.

La partecipazione alla procedura non preclude la possibilità di chiedere  un  risarcimento   attraverso   un   normale   procedimento giudiziario;

L’ Adr si fa carico di notificare l’ esito della procedura per iscritto specificando i motivi, entro 90 giorni dal ricevimento del fascicolo.

Ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, del regolamento (UE)  n.  524/2013  del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2013, relativo  alla risoluzione delle controversie online dei consumatori si garantisce l’accesso dei  consumatori  alle  controversie transfrontaliere per mezzo di un Centro nazionale della rete  europea per  i  consumatori  (ECC-NET)  per  essere  assistiti   nell’accesso all’organismo ADR che opera in un altro Stato membro ed e’ competente a trattare la loro controversia transfrontaliera.

7) NULLE LE SENTENZE DELLA COMMISSIONE TRIBUTARIE

Con sentenza n. 17497/2015 la Cassazione dichiarava la nullità delle sentenze emesse dalla Commissione Tributaria Regionale  del Lazio per mancato rispetto del contraddittorio.

In particolare, il ricorrente proponeva ricorso contro l’ Agenzia delle Entrate,

Equitalia e il Comune,   avverso una sentenza emessa dalla CTR  che non aveva disposto la riunione delle impugnazioni e chiamato in giudizio i litisconsorti necessari.

Sulla questione la Suprema Corte ritenne sussistere l’error in precedendo secondo cui era incorsa la Commissione Tributaria Regionale che pronunciandosi con sentenze n. 88/35/12 e n. 87/35/12 sull’ appello proposto rispettivamente dall’ Equitalia e dell’ Agenzia delle entrate,  non rilevava nel primo caso che l’ appello non era stato notificato al contribuente e nel secondo caso non era stato notificato ad Equitalia.

Altresì,  dagli atti emergeva che in entrambi gli appelli proposti era stata devoluta al giudice di secondo grado  la questione del perfezionamento della notifica delle cartelle presupposte all’ iscrizione ipotecaria.

Seguendo il principio che “in tema di contenzioso tributario, in caso di litisconsorzio processuale, che determina l’inscindibilità delle cause anche ove non sussisterebbe il litisconsorzio necessario di natura sostanziale, l’omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina l’inammissibilità del gravame, ma la necessità per il giudice d’ordinare l’integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., nei confronti della parte pretermessa, pena la nullità del procedimento di secondo grado e della sentenza che l’ha concluso, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità“.

Ne consegue che:  “La identità del devolutum implica inscindibilità delle cause che ai sensi dell’ art. 331 cpc va riferito non solo alle ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale, ma anche alle ipotesi di litisconsorzio necessario processuale, le quali si verificano quando la presenza di più parti nel giudizio di primo grado debba necessariamente, persistere in sede di impugnazione, al fine di evitare possibili giudicati contrastanti in ordine alla stessa materia e nei confronti di qui soggetti che siano stati parti del  giudizio(sent. 567/98)”.

Pertanto, secondo i giudici di legittimità vanno evitati la formazione di giudicati diversi uno in capo al concessionario della riscossione e uno all’ ente impositore e considerati litisconsorti processuali insieme al contribuente nel giudizio di secondo grado.

Pertanto si considerano nulle le sentenze per non integrità del contraddittorio.

 

 

Rosalba Vitale

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