Jobs Act: il nuovo contratto non basta per avere un mutuo

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Il Jobs Act non è ancora partito è già arrivano i primi, problematici risultati della riforma del lavoro. Nei mesi scorsi, i maggiori timori erano legati all’impatto del nuovo contratto a tutele crescenti e, ora, arrivano le prime dimostrazioni che ottenere un mutuo in banca sarà davvero un’impresa.

I quattro decreti approvati dal Consiglio dei ministri lo scorso 20 febbraio, dopo il passaggio parallelo alle commissioni Lavoro di Camera e Senato, non sono ancora approdati in Gazzetta Ufficiale, anche se hanno ricevuto, proprio nelle ultime ore, il sigillo della firma presidenziale da parte del Capo dello Stato Sergio Mattarella.

Dunque, dovrebbe essere questione di pochissimi giorni e, poi, la riforma del lavoro di Matteo Renzi entrerà ufficialmente in vigore, a distanza di una settimana circa dalla data annunciata inizialmente come punto d’inizio della nuova era sui contratti, con l’aggiornamento dell’articolo 18 per la parte che riguarda i licenziamenti disciplinari ed economici.

Nei giorni scorsi, sono arrivati alcuni segnali confortanti dalle imprese, su tutte Fiat e Telecom, che hanno annunciato piani di assunzione corposi per i prossimi mesi. Sicuramente, la possibilità di accedere agli sgravi della legge di stabilità 2015, assieme ai nuovi termini del contratto a tutele crescenti, che stabilisce un indennizzo senza diritto al reintegro per gran parte dei casi di interruzione del rapporto di lavoro, hanno spinto alcune compagnie a rinfoltire i ranghi.

Ma ci sono già alcuni aspetti che fanno dubitare dell’effettivo risultato del Jobs Act, almeno sul fronte della sicurezza dei lavoratori e della realizzazione delle aspettative di vita dei nuovi assunti, gli unici che saranno sottoposti al regime delle tutele crescenti. Su Repubblica di oggi, infatti, Matteo Pucciarelli e Silvia Valenti si sono finti una coppia in cerca di mutuo per acquistare la prima casa.

Queste le caratteristiche dei due fidanzati a caccia di sostegno economico: lui 30 anni, geometra, contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti appena firmato, 1600 euro al mese e tredicesima; lei trentenne, grafica, un vecchio indeterminato a 1200 euro al mese e tredicesima.

La loro caccia tra gli sportelli bancari è giustificata da una casa localizzata alla semi periferia di Milano, dal valore di 200mila euro e 70mila euro di anticipo richiesti.

La loro sfilata avviene negli uffici dei maggiori gruppi creditizi del Paese. Primi, Bnl-Bnp Paribas non si scopre troppo: “Rientrate, ma serve un garante”. In casa Unicredit, il dato principale è quello della ragazza, che ha un vecchio contratto ma a stipendio più basso: quasi a voler affermare implicitamente che rimane quello più sicuro dei due. A Monte dei Paschi, si rinvia il tutto a 3 o 6 mesi.

Idem alle popolari, dove, da una parte, vengono richiesti da sei a 24 mesi di lavoro pregresso a tempo indeterminato per tranquillizzare i creditori. Dall’altra, poi c’è chi propone anche l’assicurazione contro l’eventuale perdita del lavoro, dal costo modico di 12mila euro. Unico caso quello di Deutsche Bank, che accoglie i due giovani con i propositi di chi riconosce che “è pur sempre un contratto a tempo indeterminato”.

Insomma, l’adeguamento del sistema del credito alle novità introdotte con il Jobs Act sembra lontano anni luce da quel cambiamento tanto sbandierato.

Se il mondo del credito non aggiornerà i propri registri alle novità del contratto a tutele crescenti, allora, il solco che divide già ora – in termini di sicurezza del lavoro – vecchi e nuovi assunti non potrà che allargarsi anche al fronte ben più grave dell’accesso al credito. Al momento, stante un probabile incremento dei posti di lavoro, le uniche garanzie sembrano assicurate ai datori di lavoro, mentre i lavoratori temono di doversi rassegnare a un precariato perenne, quantomeno agli occhi delle banche.

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Francesco Maltoni

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