Perché Google vuole il mio codice fiscale. Modifiche Iva-Ue 2015

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Nei giorni scorsi molti utenti, in particolare di GMail e dunque Google, si sono visti recapitare nella propria casella di posta una richiesta insolita da parte del colosso informatico:  l’inserimento del proprio codice fiscale.

Alcuni, i più timorosi, hanno pensato a qualche forma di phishing. Ormai, le truffe online e via mail si sono fatte così sofisticate da portare più di un utente a sospettare sulla veridicità della provenienza del messaggio da Google Wallet, la divisione del colosso informatico che si occupa delle transazioni economiche dei suoi clienti. In realtà, non c’è nulla da temere: è tutto regolare e l’azienda si sta uniformando a un nuovo regolamento comunitario, entrato in vigore a partire dallo scorso primo gennaio.

Il messaggio, in questi giorni, viene diramato a tutti gli utenti dell’Eurozona per effetto delle modifiche intervenute in fatto di Iva sui prodotti elettronici, intervenute a partire dallo scorso primo gennaio.

Addio documenti, insomma. Nel quadro di rivisitazione fiscale delle realtà informatiche che operano su scala internazionale e, magari, versano le imposte in base alla sede spesso domiciliata nel Paese membro che promette le condizioni più favorevoli – di solito Benelux o Irlanda – la richiesta arrivata a milioni di utenti in tutto il continente rende necessario comunicare all’azienda americana anche l’ultima informazione di solito estromessa dalle generalità richieste dai siti internet: il codice fiscale.

Purtroppo, sarà necessario per tutti gli utenti con un telefonino Android inviare anche questo dato identificativo al colosso di Mountain View, pena l’impossibilità di completare nuovi acquisti dal Play Store, il negozio online di applicazioni da cui i più incalliti scaricano quotidianamente nuovi software per il proprio telefonino.

 

Cosa cambia ai fini fiscali

In sostanza, d’ora in avanti Google, vendendo dal proprio “magazzino” virtuale un’applicazione, non potrà più applicare l’Iva sul paese di residenza della compagnia in Europa, ma sarà costretto a versare un’imposta  equivalente a quella del sistema fiscale vigente nello Stato in cui l’app viene scaricata.

Allo stesso modo, per gli sviluppatori di applicazioni, l’Iva da calcolare dovrà essere relativa al Paese in cui queste vengono acquistate e non più in quello in cui vengono prodotte.

Le novità, ovviamente, non coinvolgono Google in maniera esclusiva, ma, ovviamente anche altre compagnie molto note nella galassia della tecnologia, e, tra loro, anche dirette concorrenti, come Skype e Apple.

Ad accompagnare il cambio di rotta in fatto di Iva, è arrivata, sempre in ambito comunitario, l’attivazione del MOSS sportello unico per i fornitori, relativo a tutte le transazioni di tipo B2C che, però, non riguardino i beni materiali, ma solo servizi di telecomunicazione, teleradiodiffusione ed elettronici.

Ovviamente, per l’Italia, in ragione dell’Iva al 22%, il nuovo regime si traduce in un vantaggio per i fornitori ed esportatori, che potranno applicare l’imposta in base al mercato di destinazione, e meno per i consumatori i quali, a breve, potrebbero imbattersi in qualche prevedibile rincaro, conseguente all’inasprimento fiscale.

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Francesco Maltoni

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