Offese negli scritti degli avvocati: cosa dice il codice penale

Redazione 02/04/14
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Ai sensi dell’art. 598 c.p. «non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi ad un’autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo».

Il presente articolo è firmato da Domenico Chindemi, magistrato e consigliere della Corte di Cassazione (ndr).

Il comma 2 del citato articolo precisa che «il giudice, pronunciando nella causa, può, oltre ai provvedimenti disciplinari, ordinare la soppressione o la cancellazione, in tutto o in parte, delle scritture offensive e assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale».

Per l’applicabilità dell’esimente prevista dall’art. 598 c.p. occorre, quindi, che le offese concernano l’oggetto della causa [1].

Trattasi di una ipotesi speciale di non punibilità dei delitti contro l’onore costituita dall’inerenza delle espressioni offensive all’attività delle parti e dei difensori nell’ambito di procedimenti civili, penali e amministrativi, prevista dall’art. 598 c.p.[2].

L’art. 598 c.p., menziona l’autorità giudiziaria e l’autorità amministrativa; anche il giudice amministrativo deve essere qualificato “autorità giudiziaria” (quantomeno a far tempo dalla istituzione, nel 1889, della 4^ sezione del Consiglio di Stato, la cui natura giurisdizionale fu ribadita dalla L. 7 marzo 1907 n. 62); ne consegue che per “autorità amministrativa” non possa intendersi il giudice amministrativo, ma l’autorità amministrativa “non giurisdizionale” e tuttavia decidente nell’ambito del cc.dd. ricorsi amministrativi (gerarchico, in opposizione, straordinario al Capo dello Stato).[3]

Se  dagli atti difensivi si evince che le offese  riguardano in modo diretto ed immediato l’oggetto di quella controversia, non è  configurabile la responsabilita’ da atto illecito in questione.

L’offesa va tenuta distinta dall’accusa; e, mentre, per l’offesa formulata in una delle occasioni di cui al ricordato art. 598 cp, l’offensore “non risponde”, essendo operativa la causa di non punibilità, per l’accusa, l’accusatore non può che assumere la responsabilità di quel che dice. Ovviamente, anche accusare – specie se lo si fa per far valere un proprio diritto – è lecito, ma occorre che l’accusa abbia fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente (anche se erroneamente) convinto di ciò.[4]

Sono sanzioni diverse, distinte ed autonome la cancellazione delle espressioni offensive e il risarcimento del danno previsti

La prima, che non ha alcuna finalità risarcitoria, ma attua un fine preventivo, di polizia generale, impedendo l’immanenza di una causa di danno, e può essere individuata senza la seconda e viceversa. L’insussistenza di alcun rapporto di pregiudizialità fa sì che la sanzione del risarcimento del danno non è subordinata alla preventiva cancellazione[5].

Anche l’art. 598 c.p., così come l’art. 89 c.p.c. (applicabile solamente al giudizio civile) contiene una norma posta a tutela dell’eccesso nell’esercizio del diritto di difesa che si deve svolgere sempre in maniera civile e non deve essere caratterizzata dall’intento di offendere inutilmente l’avversario[6].

Nella forma e nel contenuto le espressioni difensive non debbono eccedere i limiti di un civile esercizio del diritto di difesa e di critica e le espressioni caratterizzate dall’intento di offendere la controparte costituiscono abuso di quel diritto [7].

Non devono sussistere ragioni, con riferimento alla natura e all’oggetto del giudizio, per legittimare, nell’esercizio del diritto di difesa, le espressioni offensive utilizzate, circostanza che si verifica quando si tratti di fatti estranei al giudizio o superflui ai fini della decisione.

Le espressioni diffamatorie devono essere oltre che superflue e ingiustificate ai fini del ricorso, anche gravemente offensive, in quanto non limitate a contestare la legittimità della domanda o delle difese, ma finalizzate a ledere la sfera morale della controparte.

L’obbligo del risarcimento del danno sussiste non solo nell’ipotesi in cui le espressioni offensive non abbiano alcuna relazione con l’esercizio della difesa, ma anche nell’ipotesi che esse si presentino come eccedenti le esigenze difensive, superandosi in tal caso i limiti di correttezza e civile convivenza entro cui va contenuta l’esplicazione della difesa in giudizio.

Occorre accertare se la frase «scritti presentati» si riferisca anche ai documenti prodotti in causa o solamente agli scritti difensivi formatisi nel corso del giudizio; in particolare si tratta di accertare  io se tale norma si applichi anche agli scritti formatisi in epoca antecedente al giudizio, ma successivamente prodotti.

Non è possibile far derivare la non punibilità del comportamento offensivo in giudizio dall’art. 51 c.p. in quanto il diritto di difesa non può giustificare da solo un comportamento che implichi la violazione di un diritto altrui, senza che una norma, (art. 598 c.p.), lo consenta.

Competente ad accertare e liquidare il danno derivante dall’uso di espressioni offensive contenute negli atti del processo, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., e’ lo stesso giudice dinanzi al quale si svolge il giudizio nel quale sono state usate le suddette espressioni. A tale competenza, tuttavia, e’ necessario derogare quando il giudice non possa, o non possa piu’, provvedere con sentenza sulla domanda di risarcimento, il che accade, in particolare, nei seguenti casi: A) quando le espressioni offensive siano contenute in atti del processo di esecuzione, che per tale sua natura non puo’ avere per oggetto un’azione di cognizione e quindi destinata ad essere decisa con sentenza; B) quando siano contenute in atti di un processo di cognizione che pero’, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo); C) quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia piu’ possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado); D) quando la domanda di risarcimento sia proposta nei confronti non della parte ma del suo difensore.[8]

Nel caso in cui non sussista alcuno dei casi di deroga ora indicati),  la domanda può  essere proposta solo al Giudice innanzi al quale si è svolto il giudizio nel quale  sono state usate le suddette espressioni. La domanda non  può dunque essere proposta in un autonomo giudizio.

Per l’ offesa arrecata dall’ imputato al testimone appare, quindi, più validamente invocabile la scriminante all’art. 598 c.p. che quella dell’ esercizio del diritto di difesa ex art. 51 c.p.

Anche l’esposto o segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense contenente accuse di condotte deontologicamente e penalmente rilevanti tenute da un professionista nei confronti del cliente denunciante, costituisce esercizio di legittima tutela degli interessi di quest’ultimo, attraverso il diritto di critica ( sub specie di esposto, art. 51 cod. pen.), per il quale valgono i limiti ad esso connaturati – occorrendo, in primo luogo, che le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente (ancorché erroneamente ) convinto di quanto afferma – che se rispettati escludono la sussistenza del delitto di diffamazione.[9]

Nel caso in cui le espressioni offensive siano contenute in note inviate dal lavoratore alla Commissione provinciale di conciliazione prevista dall’art. 410 c.p.c.,  l’esimente sussiste in quanto l’attività svolta dinanzi a detta Commissione (cui è demandato dalla legge il compito di operare il tentativo obbligatorio di conciliazione delle controversie di lavoro) ha natura strumentale, essendo  propedeutica a quella giudiziaria, posto che essa deve essere obbligatoriamente esperita a pena di improcedibilità dell’azione giudiziaria dinanzi al giudice del lavoro.[10]

Si ritiene che se l’art. 598 c.p.trovi  applicazione non solo quando l’offesa sia arrecata durante il corso del processo, dopo, cioè, che le parti si siano costituite davanti al giudice, ma anche per le offese contenuti in atti antecedenti la proposizione del giudizio, ma finalizzati alla proposizione dello stesso, come avviene, ad esempio, nel giudizio amministrativo, qualora il successivo ricorso sia stato poi proposto, con la produzione in giudizio d tali atti, avverso il silenzio rifiuto dell’Amministrazione, presupposto e condizione del ricorso, i non essendo lecito offendere impunemente un soggetto con una attività diffamatoria finalizzata alla instaurazione del giudizio amministrativo.

Le istanze inviate a terzi (generalmente organi della Pubblica Amministrazione, successivamente prodotte dalla parte ricorrente sono finalizzate all’instaurazione del giudizio avverso il silenzio serbato dall’Amministrazione e, quindi, fanno parte del procedimento, essendo state prodotte direttamente dal ricorrente quale presupposto asseritamente legittimante del ricorso;  eventuali offese contenute in tali scritti, ove concernano in modo diretto e immediato l’oggetto della controversia davanti al giudice amministrativo ed avendo rilevanza funzionale per le argomentazione della tesi prospettata e per l’accoglimento della domanda proposta, possano essere valutate dal Giudice amministrativo ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi del’art. 598, comma 2, c.p., valutando anche, quale criterio risarcitorio, la eventuale infondatezza del ricorso ai fini della superfluità e gratuità delle accuse.

Nel caso, invece, in cui dovesse ritenersi che tale situazione non rientri nell’ambito di operatività dell’art. 598 c.p. l’interessato ben potrebbe chiedere al giudice civile il risarcimento danni per le espressioni diffamatorie o calunniose contenute in tali scritti, con una tutela anch’essa piena, ai sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c.

La Corte costituzionale con sentenza  n. 380/1999 rileva come sia  possibile un’interpretazione dell’art. 598 c.p. che rende compatibile la norma con i principi costituzionali, in un contesto normativo, quello relativo all’oltraggio, ampiamente mutato ritenendo che le offese contenute in discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori dinanzi all’autorità giudiziaria e concernenti l’oggetto della causa non differiscono, quanto alla condotta, a seconda che il destinatario delle espressioni offensive sia una parte privata o il P.M., in quanto la finalità perseguita dal legislatore non potrebbe essere efficacemente realizzata se la portata dell’esimente fosse circoscritta in relazione ai soggetti destinatari delle offese [11].

La Consulta ha, quindi, ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 343 e 598 c.p. sollevata, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., rispettivamente nella parte in cui prevedono che le offese arrecate nel corso del dibattimento dal difensore al P.M. integrino il reato di oltraggio a un magistrato in udienza e che la non punibilità, stabilita per le offese contenute negli scritti o discorsi difensivi delle parti o dei loro patrocinatori, si estenda anche per le offese verso il P.M. in interventi del difensore nel corso di un’udienza penale [12].

Trattasi di sentenza interpretativa di rigetto che propone un’interpretazione innovativa, soprattutto per l’epoca in cui è intervenuta, dell’art. 598 c.p., in relazione all’art. 343 c.p., volta ad estendere l’ambito applicativo dell’esimente, al caso in cui il destinatario delle espressioni offensive contenute in discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori dinanzi all’autorità giudiziaria e concernenti l’oggetto della causa sia una parte privata ma anche nel caso in cui parte offesa  sia il P.M., al fine di garantire la parità di trattamento delle parti processuali e il fondamentale diritto di difesa che, implicitamente, la Corte considera compromessi dall’attuale assetto normativo [13].

Non sembra giustificata un’ interpretazione formalistica della nozione di decoro, alla luce degli artt. 1 e 3 Cost. , ove ritenuto non applicabile alle offese rivolte al P.M,. alla luce del diritto costituzionale della libera espressione del pensiero, nella quale ottica ben diverso è il caso della critica che è anche espressione del diritto di difesa da quello dell’ attacco indiscriminato alla giustizia (anche come forma di linguaggio contenutisticamente offensivo.

Non basta quindi affermare che, se il prestigio viene conferito dalla costituzione all’ordine giudiziario, è coerente dedurne la legittimità dell’ incriminazione di colui che lo lede, dovendo tale principio essere subordinato di fronte ad una espressione di critica motivata e conferente al procedimento nel quale viene esercitato il diritto di difesa.

È dubbio se l’art. 598 c.p. possa trovare applicazione con riferimento all’arbitrato irrituale in forza   della inidoneità dell’art. 598 c.p. a consentire interpretazioni di tipo analogico consegue alla sua caratterizzazione di norma eccezionale in quanto la  ratio della norma è costituita dalla  libertà di difesa mentre  la procedura di arbitrato irrituale si svolge su un piano negoziale e privatistico, pertanto non riconducibile alla nozione tecnica di procedimento per il quale solo la difesa è garantita ai sensi dell’ art. 24, comma 2, Cost.[14].

Non dovrebbero sussistere più limitazioni alla applicazione dell’art. 598 c.p. anche all’arbitrato irrituale dopo  la riforma dell’arbitrato, di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che ha introdotto l’art. 808  ter, c.p.c., che, per l’arbitrato irrituale e  fa testualmente riferimento  al comma 2°, par. 1, all’obbligo degli arbitri di pronunciarsi nei limiti delle conclusioni delle parti, e al comma 2°, par. 5), evidenzia l’obbligo di rispettare il principio del contraddittorio fra le parti,  evidenziandosi, pur nel quadro contrattuale di questo tipo di arbitrato, l’esigenza di tutelare il diritto a una congrua difesa.

Non commette, invece, oltraggio a pubblico ufficiale il difensore che si rivolga al testimone, durante la sua escussione dibattimentale, con espressioni offensive, quanto il testimone stesso, con il suo riprovevole comportamento, vi abbia dato causa.

Non trova applicazione l’art. 598 c.p. neanche in relazione alle offese contenute negli scritti o discorsi proposti nel corso di procedimento davanti all’ autorità giudiziaria o amministrativa dal consulente tecnico di parte.

La posizione del consulente non è assimilabile a quella del difensore: la causa di non punibilità a quest’ultimo riconosciuta ha carattere eccezionale e non è pertanto passibile di interpretazione analogica.

Potrebbe anche  sostenersi, in senso contrario che poiché il consulente di parte si configura nella struttura del processo quale elemento d’ integrazione dell’ ufficio della difesa e al medesimo possa esser riconosciuta l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 598 c.p.[15].



[1] Sul tema cfr., Corbetta, Frasi calunniose contenute nella comparsa di risposta in un giudizio civile, in Dir. pen. proc., 2006, 48; D’Arcangelo, Le offese al datore di lavoro contenute nella memoria difensiva giustificano il licenziamento?, in Riv. it. dir. lav., 2007, 941.

[2] Analizza la speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 598 c.p. Cerqua, Delitti contro l’onore e immunità giudiziale, in Giud. pace, 2011, 267; Id., Diffamazione, immunità giudiziale e diritto di critica, ivi, 2010, 178.

[3] Cass. Pen. sez., V,15 aprile 2011, n.28081

[4] Cass. Pen. sez., V,15 aprile 2011, n.28081

[5] Cass. civ., 26 luglio 2002, n. 11063.

[6] Cipolla, In tema di offese in scritti destinati all’autorità giudiziaria, in Cass. pen., 2003, 904-906.

[7] Cfr. Cass., 14 marzo 1981, n. 1430. Sull’etica e deontologia professionale dell’avvocato, Cerri, Linguaggio e discriminazione. I compiti delle istituzioni forensi, in Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa (www.europeanrights.eu) 2011, Newsletter n. 28.

[8]Cass., 3 marzo 2010, n. 5062; Cass. 9/07/2009 n. 16121

[9] Cass. Pen. sez., V,15 aprile 2011, n.28081, in applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha censurato la decisione con cui il giudice di merito ha ritenuto sussistente il delitto di diffamazione, escludendo l’applicabilità dell’art. 598 cod. pen., ed ha affermato, in tal caso, l’operatività della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen., beninteso sussistendo i limiti ad essa inerenti.

[10] Cass. Pen., sez. V, 7 luglio 2011, n.48544

[11] Per un commento alla sentenza interpretativa della Corte cost. n. 380/1999, Marandola, L’esimente delle opinioni difensive opera anche per l’oltraggio a magistrato in udienza, in Studium iuris, 1999, 1430.

[12] Sull’offesa arrecata all’onore del pubblico ministero d’udienza anche alla luce delle nuove norme sul giusto processo e la funzione processuale dell’art. 598 c.p., Bartolo, Parità delle parti e oltraggio di un pubblico ministero in udienza, in Indice pen. 2001, 837-853.

[13] Ritengono che sarebbe stata preferibile una pronuncia interpretativa di accoglimento che escludesse l’estensione dell’immunità giudiziale all’oltraggio ed imponesse una modifica legislativa del testo legislativo con l’introduzione dell’espressa estensione dell’immunità giudiziaria all’art. 343 c.p., Tandura-Tonion, Sull’oltraggio arrecato dal difensore al P.M. in udienza: nuovi aspetti giuridici conseguenti alla sentenza 380/1999 della Corte Costituzionale, in Riv. pen., 1999, 1082-1085.

[14] Scarna è la dottrina la riguardo, si segnala sul tema Pisani, Sull’ applicabilità dell’ art. 598 c.p. in materia di arbitrato, in Indice pen., 1981, 131-132.

[15] In tal senso Rampioni, Osservazioni sulle offese contenute negli scritti dei consulenti tecnici di parte, in Cass. pen., 1980, 642-644.

Redazione

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