Affitti in nero, la Consulta boccia le sanzioni: ecco cosa succede

Redazione 21/03/14
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E’ illegittima la norma che prevedeva le sanzioni per gli affitti in nero: la Corte costituzionale ha bocciato il Dlgs 23/2011 per eccesso di delega negli articoli 8 e 9.

Si tratta, però, dello stesso decreto che introduceva la cedolare secca, la tassa fissa per l’occupazione di immobili a canone concordato e dunque slegata dai valori di mercato. Proprio quella tassa che il governo Renzi ha recentemente pensato di dimezzare, portandola al 10% dall’iniziale 19% – e dopo un passaggio al 15% definito dai precedenti governi.

Secondo le previsioni del decreto infatti, all’interno del provvedimento avrebbero dovuto trovarsi le norme relative ai vari organi di governo, come Province, Comuni, Città metropolitane e Regioni, in relazione all’incremento della loro autonomia finanziaria. Dunque, tutte le sanzioni in relazione a affitti sommersi, erano fuori luogo ed è così che la Consulta, lo scorso 14 marzo, ha dichiarato incostituzionale il decreto legislativo.

Quali sono gli effetti di questa sentenza? Molto semplicemente, in caso di registrazione incompleta o mancante, l’amministrazione non potrà subentrare per stabilire il canone dovuto o anche la durata del contratto di affitto.

Nello specifico, era il comma 8 a definire le modifiche agli accordi tra proprietario e inquilino. In generale era stabilito che la durata standard arrivasse a quattro anni dalla data di avvenuta archiviazione, sia che fosse realizzata spontaneamente dagli interessati, sia che procedesse l’ufficio comunale a mettere a verbale. Inoltre, il canone annuo veniva fissato al triplo della rendita catastale dell’immobile, con relativo adeguamento del 75% dell’Istat a partire dal tredicesimo mese.

Secondo la legge appena decaduta per mano della Consulta, le sanzioni in caso di mancata o insufficiente registrazione di dati sull’affitto negli uffici degli enti territoriali erano insomma per nulla attinenti con l’ambito in cui la delega era stata esercitata da parte dell’esecutivo, che avrebbe dovuto essenzialmente tutelare i margini di influenza tributaria da parte dei singoli livelli di governo e invece aveva travalicato in un terreno del tutto estraneo.

Oltretutto, la legge ormai scomparsa dopo il no della Corte costituzionale, contraddiceva anche l’articolo 6 dello Statuto del contribuente, poiché non avrebbe rispettato i minimi necessari a informare degnamente il contribuente.

 

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