Le società partecipate: un sistema al collasso del quale non si vuole fare a meno

Michele Nico 11/12/13
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“Il sistema delle società partecipate è un cancro della politica”.
Con questo slogan alcuni candidati politici del Movimento 5 Stelle si sono presentati alle recenti elezioni provinciali in Trentino, parlando delle partecipazioni societarie locali, che, stando alle dichiarazioni rese, “si sono trasformate in operazioni finanziarie che utilizzano i beni comuni per fornire utili a pochi amici o per gestire a uso e consumo degli amministratori i soldi dei contribuenti”.
Espressioni analoghe, d’altro canto, sono state adoperate anche in autorevole sede dalla magistratura contabile, allorché il procuratore regionale della Corte dei Conti della Campania, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013, ha asserito che “le società partecipate sono il vero cancro delle Amministrazioni locali, un passato di cui non ci si riesce a liberare, con incarichi e consulenze dai compensi fuori mercato che non hanno prodotto niente».
Questi impietosi interventi sulle società pubbliche, che imperversano dal nord al sud Italia, sono il frutto di esagerazioni immotivate, oppure trovano riscontro in una realtà organizzativa guasta e disastrata?
Nello specifico, dopo quanto abbiamo visto nei giorni scorsi in Liguria, ci si può anche domandare: lo sciopero selvaggio del trasporto pubblico a Genova da parte di AMT spa, fonte di enormi disagi per la popolazione locale, è solo un evento isolato e circoscritto, oppure la punta di un iceberg, destinata a rivelare le pecche di un sistema gestionale ormai alla deriva?
Per cercare una risposta a questi interrogativi, c’è da sapere che uno studio elaborato dall’Anci nel 2012 ha evidenziato che il 41% delle 3.600 società partecipate dai Comuni (di cui 1.470 riferibili a servizi pubblici locali) ha bruciato il capitale ricevuto in dotazione dagli Enti soci, accumulando perdite complessive per 581,2 milioni di euro.
Inoltre, l’85% delle municipalizzate nel 2011 ha chiuso il bilancio in perdita, mentre l’88% di quelle che hanno registrato i conti in utile è comunque al di sotto del valore medio degli utili complessivi.
Stando al rapporto della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica 2012, il 78 % delle società a partecipazione pubblica locale ha ottenuto l’affidamento diretto, e tali società, nonostante siano finora sfuggite agli obblighi di apertura al mercato, hanno prodotto un debito di circa 34 miliardi di euro.
Nel triennio 2008/2010 il debito degli organismi partecipati ha subìto un incremento annuo costante del 5-6 %, che nel periodo successivo è ulteriormente lievitato.
Oltre un terzo delle società pubbliche ha chiuso in perdita uno degli esercizi compresi nel triennio 2008/2010, e la distribuzione territoriale delle società comunali in perdita è concentrata al Nord (50 %) seguito dal Centro (30 %) e dal Sud/Isole (20 %).
Vista la diffusione generalizzata di questo genere di affidamenti in house, la Corte dei Conti desume, nel rapporto sopra citato, che lo strumento societario è stato utilizzato dagli Enti locali per porre in essere modelli di gestione riferibili in via diretta alla PA.
Di qui il convincimento della magistratura contabile che la revisione del perimetro delle società pubbliche deve considerarsi un’operazione essenziale non solo per attuare una riduzione della spesa, ma anche per rendere più efficiente l’azione pubblica.
In questo scenario, l’obbligo di dismissione delle società pubbliche in perdita di cui all’art. 14, comma 32, del DL 78/2010 è rimasto sostanzialmente privo di attuazione, a causa delle difficoltà riscontrate dai Comuni nella “missione impossibile” di smantellare un sistema di partecipate pazientemente costruito, nel corso degli anni, per attutire l’impatto del debito pubblico sui bilanci degli Enti locali.
È probabilmente questa la ragione per cui la legge di stabilità 2014, nel testo licenziato dal Senato, intende cancellare con un colpo di spugna i tentativi di razionalizzazione delle società partecipate messi in campo negli ultimi anni, abolendo le vendite obbligatorie per le partecipate dei Comuni fino a 50mila abitanti.
C’è però da temere che, sopprimendo la cura dolorosa, le condizioni di salute già critiche del nostro Paese siano destinate soltanto a peggiorare.

Michele Nico

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