L’imposta di bollo nelle forme contrattuali di raccolta del risparmio

Gianni Polo 09/12/13
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Come è noto, l’imposta di bollo applicabile ai rapporti finanziari ha subito in questi ultimi anni profonde modificazioni e proprio in relazione ad esse si sono registrati diversi orientamenti da parte dei risparmiatori, anche al fine di evitare, per quanto possibile, un più pesante onere tributario in relazione alle differenti scelte di impiego delle proprie disponibilità monetarie.

(Questo articolo è uno stralcio dell’opera dell’autore, in uscita per Maggioli Editore a gennaio 2014, dal titolo “La nuova imposta di bollo”, ndr)

Per di più, proprio nel momento in cui si scrive, è approdato alla Camera dei Deputati il disegno della c.d. “Legge di stabilità per l’anno 2014” (Atto Camera n. 1865), dopo che il Senato ha lo ha approvato in seguito al “voto di fiducia” posto dal Governo sul proprio c.d. “maxi-emendamento” all’originaria stesura del provvedimento.

Invero, fra le tante novità fiscali previste, al comma 391 dell’unico articolo 1 viene stabilito – a decorrere dal 1° gennaio 2014 – l’incremento al 2 per mille (dall’attuale 1,5 per mille) dell’aliquota proporzionale dell’imposta di bollo applicabile annualmente sulle comunicazioni relative ai prodotti finanziari che le banche e gli altri intermediari devono inviare periodicamente alla propria clientela, mentre nulla muta rispetto al passato per quanto riguarda l’imposta di bollo dovuta sugli estratti dei conti correnti e sui rendiconti dei libretti di risparmio.

Risulta quindi evidente che l’aspetto del “costo fiscale” condiziona, al pari di altri requisiti, la scelta del cliente investitore, anche quando il suo interesse sia meramente quello di allocare al meglio i propri risparmi, senza alcun intento speculativo.

La questione comporta una disamina delle diverse figure contrattuali con cui abitualmente le banche raccolgono il risparmio fra la clientela (ad esempio: certificanti di deposito, buoni fruttiferi, libretti di risparmio, conti correnti, conti deposito) che – per quanto richiamati con impropri “sinonimi” – hanno diversa disciplina e, soprattutto – per quanto qui ci interessa – un differente trattamento ai fini dell’applicazione dell’imposta di bollo.

In stretta sintesi, si ricorda che, attualmente, il comma 2-bis dell’art. 13 della Tariffa, Parte prima, allegata al DPR n. 642/1972 (di seguito: tariffa1), prevede l’applicazione dell’imposta di bollo pari a 34,20 euro annuali (per i clienti persone fisiche) o di 100 euro (per i soggetti diversi dai precedenti) per gli:

Estratti conto, inviati dalle banche ai clienti ai sensi dell’art. 119 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, nonché estratti di conto corrente postale e rendiconti dei libretti di risparmio anche postali (…)

La Nota 3-bis, posta in calce a detto articolo, prevede tra l’altro:

“(…) Se il cliente è persona fisica, l’imposta non è dovuta quando il valore medio di giacenza risultante dagli estratti e dai libretti è complessivamente non superiore a euro 5.000”

Per il successivo comma 2-ter dello stesso articolo 13 è invece prevista una imposta di bollo c.d. “permillare”, con l’applicazione dell’aliquota proporzionale (attualmente pari all’1,5 per mille annuo, ma sarà presto, come abbiamo premesso, portata al 2 per mille) sull’ammontare complessivo – ossia: “sul complessivo valore di mercato o, in mancanza, sul valore nominale o di rimborso” – del rapporto per le:

Comunicazioni periodiche alla clientela relativa a prodotti finanziari, anche se non soggetti all’obbligo di deposito, ivi compresi i depositi bancari e postali, anche se rappresentati da certificati (…)”

La relativa Nota 3-ter prevede, inoltre, fra l’altro:

“L’imposta è sostitutiva di quella dovuta per tutti gli atti e documenti formati o emessi ovvero ricevuti dalle banche, nonché dagli uffici dell’Ente poste italiane, relativi a operazioni e rapporti regolati mediante conto corrente, ovvero relativi al deposito di titoli indicati nell’art. 2, nota 2-bis, e negli articoli 9, comma 1, lettera a), 13, commi 1 e 2, e 14. La comunicazione relativa ai prodotti finanziari, ivi compresi i buoni postali fruttiferi, anche non soggetti all’obbligo di deposito, si considera in ogni caso inviata almeno una volta nel corso dell’anno anche quando non sussiste un obbligo di invio o di redazione. (…) L’imposta è dovuta nella misura minima di euro 34,20 e, limitatamente all’anno 2012, nella misura massima di 1.200 euro, nonché, a decorrere dall’anno 2013, nella misura massima di euro 4.500 se il cliente è soggetto diverso da persona fisica (…)”.

Tali importanti disposizioni sono state più diffusamente commentate dall’Agenzia delle Entrate con le Circolari n. 40/E del 4.8.2011 e n. 46/E del 24.10, 2011, nonché da tutte le Associazioni di categoria degli intermediari finanziari. Si vedano, al riguardo, la Circolare ABI, Serie tributaria, n. 18 del 23.12.2011; Circolari ASSONIME n. 21 del 5.8.2011 e n. 26 del 20.10.2011; Circolare FEDERCASSE n.80/12 del 29.5.2012; Circolare ASSOSIM n. 15/11 del 26.8.2011.

Passando ora in rassegna gli strumenti che tradizionalmente vengono scelti dalla clientela per esigenze (anche se non solo) di risparmio, iniziamo dai c.d. “certificati di deposito”, che, almeno fino all’introduzione del sopra riportato comma 2-ter, erano con preferenza scelti proprio per evitare – almeno nei casi dei certificati della specie c.d. “cartolarizzati” e non inseriti in rapporti di custodia ed amministrazione presso una banca – l’applicazione di una onerosa imposta di bollo.

Non è il caso di ripercorre qui le lunghe considerazioni che portavano, in passato, ad escludere in loro riferimento l’applicazione del tributo di bollo sui relativi contratti e durante la durata del certificato (se di interesse, cfr. M. PULCINI: “Riflessioni sul trattamento fiscale ai fini dell’imposta di bollo dei certificati di deposito e dei buoni fruttiferi materiali ed immateriali emessi dalle banche e dei relativi atti e documenti” – Bollettino tributario n. 2/2010, pag. 105; G. POLO: “Inquadramento normativo e fiscale dei certificati di deposito nell’ottica delle rinnovate scelte di investimento da parte della clientela bancaria – Ibidem n. 13/2012, pag. 970, nonché Lettera-Circolare ABI prot. n. UOF/UFI/002419 del 29.10.2012).

Tutte quelle, seppur fondate, argomentazioni sono venute praticamente meno con l’entrata in vigore, dal 1° gennaio 2012, delle ulteriori modificazioni introdotte alle norme in esame con il D.L. n. 16/2012, convertito dalla legge n. 44/2012, che, riscrivendo il disposto del comma 2-ter dell’art. 13 della tariffa1, sottopone all’aliquota proporzionale di bollo annuale le comunicazioni relative ai “prodotti finanziari” e non più in riferimento al contenuto del “deposito titoli”.

Diviene quindi irrilevante, ai fini dell’applicazione del tributo, se il certificato di deposito sia o meno depositato presso una banca o altro c.d. “ente gestore”.

Si potrebbe, eventualmente, disquisire sulla completa assimilabilità di tutti i certificati di deposito alla generale categoria di “prodotti finanziari”, nel caso in cui sia nello specifico prevista una limitata durata ovvero forti vincoli alla loro trasmissibilità.

Non si può sottacere comunque che la volontà del legislatore di sottoporre, con la cennata riforma,  a tassazione qualsiasi forma di “investimento finanziario (fino a ricomprendervi, come vedremo in seguito, anche i “conti deposito”, strumenti tipici di risparmio) determina con evidenza l’opportunità di sconsigliare qualsiasi tentativo di non applicazione del tributo.

Conseguentemente, se il certificato di deposito non viene depositato presso l’intermediario, questi dovrà applicare l’imposta all’atto del rimborso (considerando anche l’imposta che avrà calcolato ed “accantonato” durante le annualità di vita del titolo) mentre, se il certificato sarà immesso in un deposito a custodia ed amministrazione esso, al pari di tutti i titoli ivi contenuti, costituirà base imponibile per l’imposta in esame al termine previsto contrattualmente per la relativa comunicazione.

Quantomeno, in virtù dell’inevitabile applicazione di questa tassazione “periodica” di bollo, nulla sarà dovuto per il medesimo tributo per il contratto di sottoscrizione e per tutti i documenti che saranno emessi in relazione allo stesso certificato di deposto, in forza del disposto della ricordata Nota 3-bis dell’art. 13 della tariffa1.

Quanto esposto vale anche per gli analoghi c.d. “buoni fruttiferi”, materiali od immateriali (pur con qualche particolarità riconosciuta dalla legge per i buoni della specie emessi da Poste italiane S.p.a.).

Passando al diverso strumento dei c.d. “conto deposito”, si può subito osservare che una delle novità più rilevanti conseguenti alla introduzione del comma 2-ter all’art. 13 della tariffa1 è proprio rappresentata dalla inclusione nella tassazione c.d. “permillare” di questi particolari “conti”, che hanno registrato un notevole interesse fra la clientela bancaria in questi ultimi anni, sempre alla ricerca di nuove e relativamente semplici opportunità di impiego dei propri risparmi.

Invero, proprio questa principale finalità aveva suscitato in alcuni, anche a livello estremamente qualificato (cfr. Segnalazione alle Autorità parlamentari e di Governo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato n. AS936 del 16.5.2013), notevoli perplessità, atteso che questi rapporti venivano ricompresi espressamente dal legislatore in una forma di tassazione alquanto onerosa (del resto, proprio lo stesso TUF esclude i depositi di denaro tra gli strumenti finanziari, cfr. art. 1, lettera u) del D.Lgs. n. 58/1998), tipica dei prodotti di investimento, mentre sembrava come più naturale la loro assimilazione ai conti correnti e ai libretti di risparmio, già considerati nel precedente comma 2-bis, pena la possibile insorgenza di distorsioni concorrenziali.

Il conto deposito, rispetto agli analoghi depositi in conto corrente (i quali offrono i tipici servizi di pagamento, come gli assegni, i bonifici, gli addebiti, i prelevamenti tramite bancomat, ecc.) e ai libretti di risparmio, è un prodotto bancario spesso offerto on line, con investimento minimo, a costo zero e con tassi di rendimento più elevati rispetto ai precedenti.

La sua classica connotazione telematica, inoltre, favorisce l’avvicinamento del consumatore bancario italiano al sistema internet che risulta senz’altro più conveniente, anche se ancora non sufficientemente diffuso. Ciò contribuisce ad implementare l’educazione finanziaria ed incentiva il confronto degli strumenti bancari, favorendo la scelta del miglior prodotto e l’assetto concorrenziale del mercato.

Come si ricorderà, in passato, il “rendiconto annuale” che il cliente del conto deposito riceve non rientrava nell’ambito di applicazione del previgente comma 2-bis dell’art. 13 della tariffa1, che prevedeva un’imposta periodica di 34,20 euro per le persone fisiche sugli estratti dei conti correnti bancari (di corrispondenza) e sulle comunicazioni relative ai depositi titoli, inviati dalle banche ai clienti ai sensi dell’art. 119 TUB.

Quindi, in linea di principio, essendo il conto di deposito diverso dal contratto di conto corrente bancario, il relativo contratto di accensione avrebbe scontato l’imposta di bollo di cui alla nota 2-bis dell’art. 2 della tariffa1, allora pari a 14,62 euro indipendentemente dal numero degli esemplari o copie e numero dei fogli che lo componevano, mentre sui relativi rendiconti cartacei inviati alla clientela si sarebbe applicata l’imposta indicata al primo comma dell’art. 13 della tariffa1 (allora pari a 1,81 euro, quando la somma risultante a saldo superava i 77,47 euro).

Tuttavia il conto deposito richiede, per la sua completa operatività, il collegamento con un ordinario conto corrente bancario (c.d. “conto d’appoggio”), acceso presso la stessa banca con la quale il cliente stipula il contratto di deposito collegato, ma anche presso una banca diversa, purché con la stessa intestazione.

Pertanto, nel caso in cui il contratto di conto-deposito è collegato ad un conto corrente intestato allo stesso cliente presso la medesima banca, sia il contratto di deposito sia gli estratti conto inviati alla clientela con riferimento a detto deposito (nonché le eventuali ricevute cartacee relative ai versamenti e ai prelievi in contante sullo stesso deposito) non dovevano essere assoggettati autonomamente a bollo, in quanto necessariamente e tecnicamente collegati ad un “conto di appoggio” regolato in conto corrente già, in quanto tale, autonomamente tassato, a questo scopo, per detto effetto “sostitutivo”.

Tale conclusione risultava suffragata dalla stessa Agenzia delle Entrate (seppure in riferimento alla diversa fattispecie dei documenti attinenti alle carte di credito – cfr. R.M. n. 160/E dell’11.11.2005. Sull’argomento si veda anche il Parere ABI n. 444 del 2010) che, pur riscontrando la piena autonomia di due rapporti giuridici distinti che un cliente può intrattenere con la medesima banca, di cui uno in conto corrente, ha riconosciuto che, qualora le operazioni relative al rapporto diverso siano regolate in conto corrente, gli estratti conto e i documenti emessi in relazione a tale distinto rapporto non scontano autonomamente l’imposta di bollo, in quanto detto tributo è sostituito dall’imposta di bollo periodica di bollo dovuta sugli estratti del conto corrente bancario collegato.

Ove invece il “conto di appoggio”, su cui effettuare gli eventuali giroconti su disposizione del titolare del conto deposito, sia radicato presso una banca diversa, detto effetto sostitutivo non si poteva realizzare, sicché sul relativo contratto e sulle rendicontazioni si doveva applicare la specifica misura dell’imposta prevista e sopra indicata.

D’altro canto, proprio in virtù del fatto che non si realizzava detto effetto “sostitutivo”, le eventuali contabili di versamento e di prelevamento diretto di denaro contante sul conto deposito non scontavano comunque l’imposta di bollo, in virtù dell’esenzione assoluta prevista dall’art. 7 della Tabella allegata allo stesso DPR n. 642/1972 per i documenti recanti addebitamenti ed accreditamenti formati, emessi o ricevuti dalle banche non soggetti, appunto, all’imposta sostitutiva di cui al comma 2-bis dell’art. 13 della tariffa1.

Tali argomentazioni avevano, peraltro, indotto le banche a promuovere politiche commerciali che, per indurre la clientela a sottoscrivere contratti di deposito di tal fatta, assicuravano l’accollo della relativa imposta di bollo ove eventualmente risultasse dovuta.

L’introduzione dell’attuale imposta proporzionale a per tali prodotti (con l’applicazione, comunque, di un importo minimo annuale di 34,20 euro) ha portato al superamento, perlopiù, di tali iniziative.

Invero, in un primo momento, si è tentato di percorre altre strade per rendere appetibili strumenti di risparmio simili che avrebbero assicurato un trattamento fiscale più contenuto. Ad esempio, si sono studiate ipotesi di contratti di conto corrente di corrispondenza, rientranti perciò nell’ipotesi di tassazione di cui al ripetuto comma 2-bis, che – almeno per un parte del suo contenuto – assicurassero al cliente tassi creditori più favorevoli a fronte di un vincolo imposto sulla durata minima delle somme ivi depositate.

Su tale questione aveva espresso le sue valutazioni l’ABI (cfr. Parere n. 1297 del 12.11.2012), sottolineando la differenza tra i due prodotti, che trovano la loro regolamentazione nella disciplina del conto corrente, ai sensi dell’art. 1852 c.c., piuttosto che nella previsione dell’art. 1834 c.c., in cui viene invece disciplinato il deposito bancario di denaro.

A questo proposito veniva richiamata anche la posizione della stessa Amministrazione finanziaria (cfr. R.M. n. 15/E del 23.1.2009), secondo cui: “caratteristica dell’operazione di conto corrente è l’esistenza o la creazione di una disponibilità del cliente presso la banca, la quale svolge un servizio di cassa. Pagamenti e riscossioni sono annotati sul conto in addebito e in accredito, e il saldo è sempre a disposizione del correntista (ex art. 1852 c.c.)”.

Nel conto corrente bancario di corrispondenza assume quindi particolare rilievo la funzione di “pagamento”, non presente invece nel contratto di deposito.

A fronte di tale ricostruzione, la configurazione di forme di “deposito” associate ad un conto corrente, finalizzata ad assicurare un maggior rendimento ai correntisti che rispettino determinati vincoli di utilizzo per un tempo prestabilito, ma senza pregiudicare per questo la possibilità per il cliente di ottenere la restituzione delle somme versate sul conto in qualsiasi momento, non dovrebbe di per sé far perdere al rapporto la natura civilistica del conto corrente, per ricadere nella figura giuridica diversa del deposito considerata dalla nuova normativa sul bollo dal comma 2-ter dell’art. 13 della tariffa1.

Seguendo tale logica, la sola tassazione che sembrava applicabile per il contratto di conto corrente così unitariamente configurato – comprensivo quindi anche delle somme per i quali il computo degli interessi viene effettuato in modo separato sulla base delle condizioni specificatamente pattuite – doveva essere quella stabilita dal comma 2-bis dello stesso citato articolo, con l’applicazione dell’imposta sostitutiva in misura fissa (e la soglia di esenzione per le giacenze “medie” inferiori a 5.000 euro).

L’auspicata interpretazione in proposito dell’Amministrazione finanziaria (cfr. R.M. n. 15/E del 10.5.2013, punto n. 2.1)  ha però disatteso tali indicazioni.

In tale occasione si è sottolineato, innanzitutto, che ciò che caratterizza il rapporto di conto corrente è il “servizio di cassa”, per cui chi intende aprirlo non si propone di realizzare un investimento e può disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito, salvo l’osservanza di un termine di preavviso eventualmente pattuito.

Richiamando poi una nota della Banca d’Italia (cfr. Nota prot. n. 0215567/13 dell’1.3.2013), si osserva che la nozione di “deposito” di denaro comprende per prassi bancaria:

–           i depositi che costituiscono la provvista di un conto corrente;

–           i depositi con funzione diversa, nei quali si possono comprendere non solo i contratti giuridicamente distinti dal conto corrente (certificati di deposito, depositi alimentati attraverso un conto corrente “di appoggio”, ecc.) ma anche i depositi regolari in conto corrente la cui funzione principale non sia quella di fornire una provvista al conto.

Per questa seconda specie di rapporti di deposito, la cui funzione non sarebbe quella di fornire provvista al conto corrente, la formula di tassazione ai fini del bollo deve essere quella percentuale di cui al comma 2-ter.

Sostanzialmente, per i rapporti di deposito di somme, anche se regolate in conto corrente, la predetta misura proporzionale dell’imposta si deve applicare, in via autonoma, alle rimanenti somme contemporaneamente detenute nel conto corrente, anche se fruttifere di un proprio tasso di interesse, ossia per le: “(…) giacenze che risultano vincolate, ovvero per le quali il cliente perde la libera disponibilità, fintanto che permane il vincolo”, anche se tali giacenze non devono essere considerate ai fini della valutazione complessiva della posizione del cliente persona fisica, per la verifica del limite di esenzione disposto dalla nota 3-bis dello stesso art. 13 della tariffa1.

Questo perché, con l’accordo con il quale si dispone la “segregazione”, le somme “vincolate” perdono la funzione principale di fornire una provvista al rapporto di conto corrente.

Come si è visto, l’Amministrazione finanziaria chiama a sostegno della propria tesi una Nota della Banca d’Italia ma, a ben vedere, si aggiungono inopinatamente, rispetto al parere dell’Autorità di vigilanza, ulteriori requisiti non esplicitati nella Nota, come quelli del “vincolo”, della “indisponibilità” e della “segregazione” delle somme, normalmente retribuite con un più favorevole tasso di interesse, che con l’accordo del cliente risultano riservate, a suo dire, a “scopo di investimento” nell’ambito della complessiva giacenza nel conto corrente. Alla sussistenza di queste condizioni, tornerebbe applicabile a questa quota di giacenza la più onerosa tassazione del comma 2-ter rispetto al rimanente, per il quale rimane fisso il tributo fisso annuale di cui al precedente comma 2-bis (e, fatta salva, per le persone fisiche, la loro non computabilità nella soglia di esenzione dall’imposta di 5.000 euro).

Ma se si portasse alle estreme conseguenze l’utilizzo di tali locuzioni, si potrebbe sostenere che l’interpretazione ministeriale troverebbe applicazione solamente nei casi in cui tale vincolo/indisponibilità/segregazione funzionasse in senso assoluto, ossia quando sia il cliente che la banca non abbiano la disponibilità di dette somme fino a quando sussista nel tempo detto vincolo.

Così, ad esempio, al cliente sarebbe preclusa la possibilità di prelevare le somme vincolate fino alla scadenza del vincolo, come la banca non potrebbe rivalersi su di esse nel caso debba onorare un assegno ricevuto per il quale non abbia provvista sufficiente nella rimanente giacenza, non vincolata, di somme sul conto corrente.

Ma tale è una fattispecie che sostanzialmente non si realizza mai nella realtà, mentre l’Amministrazione finanziaria aveva senz’altro in mente, nell’esprimere la sua posizione, quella ben più diffusa in cui il cliente si impegna a mantenere sul conto una certa somma, a fronte del riconoscimento di un più favorevole tasso creditore, senza che però questo “vincolo” gli impedisca in assoluto, sorgendo particolari necessità nel futuro, di disporre di tali somme in qualsiasi momento perdendo, ovviamente, i più favorevoli interessi all’origine pattuiti.

Data però l’esplicita interpretazione ministeriale, non ci sentiamo di suggerire di sottoporre alla tassazione tipica dei conti correnti anche queste diffuse fattispecie. Risulta invero evidente che con essa l’Agenzia delle Entrate abbia voluto ricomprendere nella tassazione più onerosa anche quelle quote “vincolate” di giacenza nel rapporto, seppur regolate unitariamente come conto corrente, riconoscendo a queste somme più che una funzione propria di “servizio di cassa/pagamento”, quella di investimento dei propri risparmi, come avviene con i prodotti finanziari.

D’altro canto, però, date le chiare indicazioni ministeriali, non riteniamo che tale interpretazione debba valere per altre forme commerciali di proposta di conto corrente, ove non sussiste il descritto “vincolo temporale” di giacenza, mentre l’ottenimento di più favorevoli interessi remunerativi per il cliente sono collegati al superamento di una certa soglia di giacenza delle somme depositate (c.d. “conti correnti a scaglioni”).

Residue perplessità persistono semmai per altre forme di “vincolo” possibilmente imposte ai conti correnti come avviene, ad esempio, quando le somme ivi depositate siano poste a garanzia di un altro rapporto intrattenuto con la banca, come un finanziamento concesso. Non sembra però che debba trovare ingresso anche in riferimento a ciò la più onerosa tassazione percentuale del bollo del comma 2-ter perché qui, evidentemente, non si può riscontrare un intento di “investimento” del conto corrente di che trattasi.

Risultano, infine, assolutamente “ibride” e non rientranti in nessuna delle ipotesi contemplate né nel comma 2-bis né nel comma 2-ter dell’art. 13 della tariffa1 (mentre potrebbero essere considerati nell’ipotesi di tassazione “ordinaria”, ai fini del bollo, di cui al comma primo dello stesso art. 13), quelle altre fattispecie di conti correnti, anche intrattenuti con banche, contemplati dalla legge ed assolutamente infruttiferi, previsti per la partecipazione, ad esempio, ad aste pubbliche, non avendo una funzione di “pagamento” e, tanto meno, di “investimento”.

Dopo questo diffuso esame, con cui si è inteso passare in rassegna diversi strumenti di raccolta di risparmio per individuare il più corretto comportamento ai fini dell’applicazione dell’imposta di bollo, non ci rimane di esaminare che i c.d. “libretti di deposito a risparmio”.

Questi strumenti, da lungo tempo conosciuti, sono espressamente disciplinati dall’art. 1835 c.c., che così recita: “Se la banca rilascia un libretto di deposito a risparmio, i versamenti e i prelevamenti si devono annotare sul libretto. Le annotazioni sul libretto, firmate dall’impiegato della banca che appare addetto al servizio, fanno piena prova nei rapporti tra banca e depositante. È nullo ogni patto contrario

È stato segnalato un rinnovato interesse della clientela per questo strumento di risparmio, che non disdegna di trasferire in esso le proprie diponibilità liquide in luogo di diversi strumenti, maggiormente preferiti in passato, come i già ricordati certificati di deposito.

Si ritiene che una delle ragioni che spinge verso questa scelta sia proprio di natura fiscale.

Infatti, in virtù del disposto del più volte citato comma 2-bis, ove sono espressamente contemplati i “libretti di risparmio”, senza alcuna differenziazione della natura vincolata o meno, la tassazione prevista è quella “fissa”, pari a 34,20 euro annuali per le persone fisiche e di 100 euro per i soggetti diversi (tenendo altresì conto per i primi della soglia di esenzione di 5.000 euro complessivi) e non quella “proporzionale” prevista dal successivo comma 2-ter per, fra l’altro – come abbiamo visto – per i certificati di deposito, i buoni fruttiferi, i conti deposito e per le somme “vincolate” nei conti correnti di corrispondenza.

Gianni Polo

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