Province, è suonata per loro la campana. Abolizione sempre più vicina

Luigi Oliveri 30/10/13
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Molti a sentire dell’abolizione delle province ancora storcono il naso e, scettici, dubitano che ciò potrà mai avvenire.

Invece, siamo molto vicini al passo. Le ragioni per essere certi che si provvederà all’automutilazione dell’organizzazione territoriale e giungere ad un salto nel vuoto devastante, sono tante e militano tutte perché si giunga davvero al risultato.

In primo luogo, occorre valutare i tempi. Dal 2007, anno di uscita de “La Casta” che l’abolizione delle province – la più inutile delle riforme possibili – man mano ha preso sempre più il centro del proscenio, come se da questa decisione dovessero dipendere i destini del Paese. Stampa e governi si sono sempre più impegnati e sbilanciati, nel lavare il cervello e far ritenere questa mossa come indispensabile, al di là di ogni ragionamento giuridico-contabile che dimostra, invece, esattamente il contrario.

Poi, occorre considerare che l’abolizione delle province per governi debolissimi, invisi, che stanno assieme più per garantire la stabilità dei ministri e dello status quo gradito a banche e speculatori, che non per perseguire davvero riforme di svolta, è molto più comoda di riforme che sarebbero davvero necessarie.

Insomma, rinunciare all’impresa titanica della Tav o all’acquisto degli F35 ha dei costi politici enormi, perché si rischia di violare patti non scritti con le lobby interessate a questo mare di spesa pubblica. Non si dica che si tratta di spese di investimento. Per realizzare l’opera o acquistare gli aerei si contrae debito: dunque, si incrementa la situazione di precarietà delle finanze pubbliche, perché il debito è la causa dell’instabilità italiana e perché gli interessi da pagare sono spesa corrente, che ingessa il bilancio.

Si dovesse seriamente parlare di riforma degli assetti organizzativi dell’amministrazione, chiunque comprenderebbe che occorrerebbe rivolgersi alle regioni. Per almeno due motivi. La loro spesa in valori assoluti ammonta a 182 miliardi, che in rapporto al complesso di 805 miliardi di spesa pubblica ne costituisce il 22,6%. Le province hanno un volume di spesa di poco meno di 11 miliardi, pari all’1,30%. Lo capirebbe chiunque che se davvero l’abolizione di qualche ente o, comunque, una sua riforma avesse come motivazione la ricerca di risparmio, sarebbe necessario partire dal bersaglio grosso e non dal bruscolino. Il secondo motivo è che la spesa delle regioni, da quando è attivo il devastante “federalismo” all’italiana voluto dalla sinistra con la riforma del Titolo V della Costituzione è passata da circa 100 milioni, ai 180 milioni attuali. La spesa delle province, nei 10 anni, è scesa da 14 miliardi circa, agli attuali 11 miliardi circa.

Le regioni non appaiono certo un esempio di virtuosità, ma guai a pensare di toccarle. Oltre il 50% della loro spesa è quella sanitaria, nella quale vi è una parte rilevantissima dedicata non ai servizi di cura alle persone, ma agli acquisti di beni e servizi. Quando con i primi abbozzi del testo del ddl di stabilità si è pensato di tagliare 2,6 dei 112 miliardi circa di spesa sanitaria, i presidenti delle regioni hanno urlato e non se ne è fatto più nulla.

Toccare le regioni è ormai impossibile: quell’immenso volume di spesa, il governo della sanità, la devastante riforma costituzionale di oltre 10 anni fa le rende potentissime, nessun governo riuscirebbe ad incidere. Più comodo, dunque, agire contro un ente poco conosciuto e istituzionalmente debole, al confronto dei titani delle regioni, anche profittando della campagna contro di loro.

Ancora, chiunque converrebbe che dopo aver avuto la conferma che vi sono circa 7.800 di società, enti ed entini costituiti da comuni, comunelli e regioni, con un volume di spesa pubblica per il solo personale pari a 15 miliardi, sarebbe opportuno, prima di aggredire le province e riformare pesantemente Costituzione e assetti organizzativi pubblici, disboscare quella giungla. Cosa che si potrebbe fare senza incomodare la Costituzione, con poche leggi ordinarie e senza nemmeno eccessivi problemi di natura finanziaria: a garantire per i debiti contratti da queste società ed enti, se chiusi, dovrebbero provvedere comunque comuni e regioni partecipanti al capitale. I servizi sarebbero reinternalizzati e molti di essi potrebbero passare, proprio in un’ottica di razionalizzazione, esattamente alle province, perfette per subentrare a comunità montante, aato, consorzi di varia natura, società regionali chiamate a svolgere funzioni inter-regionali.

Ma, se si eliminano 107 province, invece di 7.800 società, si capisce bene che per un verso, vista la campagna di stampa, si acquisiscono meriti agli occhi dei troppi cittadini attratti dalla demagogia; dall’altro è più facile “risistemare” pochi politici orfani di 107 enti, che non i tantissimi del sottobosco di 7.800 enti, che al riparo di essi godono di lauti compensi nei consigli di amministrazione e si assicurano un presente di peso nella para-politica, a chiusura della carriera o in situazioni di stand-by. E’ evidente che questo tipo di “assicurazione” sulla vita politica non verrebbe mai sacrificato, quando la mossa sulle province porterebbe maggior consenso e minor danno ai “colleghi”, magari tutti reindirizzabili esattamente nell’immensa costellazione dei tantissimi enti di dubbia utilità della galassia delle partecipate locali.

Vi è, poi, l’elemento umano. Il compito di abolire o modificare le province, al quale i ministri Patroni Griffi e Cancellieri seppero attendere solo sfornando norme incostituzionali sonoramente bocciate dalla Consulta (ma, quei ministri sono di nuovo al governo…), oggi è affidato all’uomo perfetto per questo compito, il Ministro Graziano Delrio.

E’ stato presidente dell’Anci, lobby dei grandi comuni, ai quali sono da sempre invise sia le province, sia i piccoli comuni. Le province, perché, pur essendo enti più deboli del grande comune capoluogo, incidono sulla programmazione generale e sono spesso interlocutori nei progetti di largo respiro, come nel caso dell’Expo a Milano. Inoltre, le province hanno un minimo di funzioni di controllo su alcune funzioni dei comuni i quali, abituati a considerarsi piccole repubbliche superiorem non recognoscens dai tempi delle riforme Bassanini, che per assecondare il “partito dei sindaci” abolì ogni controllo preventivo di legittimità, rese i segretari comunali fantocci in mano ai sindaci ed introdusse la costosissima ed inutile figura del direttore generale, vedrebbero di buon occhio l’estinzione della provincia. Che implicherebbe anche la possibilità di ampliare l’influenza nei riguardi dei piccoli comuni, non solo dell’hinterland, ma dell’intero territorio.

Infatti, il ddl Delrio persegue perfettamente questo schema. Dove sorgeranno le città metropolitane al posto delle province, infatti, il sindaco metropolitano sarà il sindaco del comune capoluogo. Vi sarà un’amministrazione che avrà al centro solo o in larghissima prevalenza corpo elettorale e necessità del comune capoluogo, con tutti gli altri centri della “campagna” trasformati in periferia della periferia.

Negli altri territori, nei quali non si capisce bene con quale criterio le funzioni delle province saranno ripartite tra comuni, unioni di comuni, regioni, per altro con possibilità di un intreccio di deleghe reciproche, l’egemonia dei grandi comuni sarà confermata dal sistema del “voto ponderato”, che darà maggior peso ai sindaci dei grandi comuni, in spregio a qualsiasi criterio di democrazia rappresentativa, al di là del paravento delle molte “assemblee” create dal ddl, per far apparire che, invece, vi sarà molta rappresentatività.

Delrio, poi, è l’uomo perfetto, perché un gregario-esecutore. Non guarda molto negli occhi quando parla, se non quando c’è da proclamare o da sentenziare. Va, dunque, a testa bassa.

Lo descrive perfettamente l’articolo-intervista di Repubblica del 28 ottobre: in merito all’abolizione delle province, Delrio “sfodera una gelida determinazione”.

Ribadisce che l’abolizione delle province fa parte del programma elettorale di Bersani; poco importa che non sia vero. L’ex segretario del suo partito sfoderò l’argomento tra i 8 punti inventati per tentare l’accordo con Grillo, dopo le elezioni.

Poi, nell’intervista, l’intervistatore indirettamente gli ricorda che 44 costituzionalisti (in compagnia di moltissimi commentatori e studiosi, il primo De Rita) hanno evidenziato tutti i vizi e la pessima qualità del suo disegno di legge e la risposta è: “io dell’appello dei costituzionalisti non so che farmene”.

Il Ministro, dunque, è l’uomo giusto al posto giusto. E’ un medico, dunque, uno che di appelli di giuristi davvero non può sapere cosa farsene, perché ovviamente gli mancano le basi per formarsi un giudizio di carattere tecnico. Egli non può che dare ascolto ad ukaze di partito o demagogici, prendendo per buoni solo ed unicamente i “pareri” di chi egli incarica per farsi dare ragione. Quindi, valgono solo i pensieri e le idee di chi lo collabori nel suo disegno. Il resto non conta.

Non conta, a tal punto che il Ministro, pur di giungere al traguardo dell’abolizione delle province, un evento che da gregario lo potrebbe trasformare nel memorabile Ministro che abolì le province, alla domanda che ne sarà del patrimonio, dei debiti e del personale, risponde: “Poi vedremo”.

E’ la conferma che si tratta di una riforma alla cieca, perché cieca è la volontà di abolire, per abolire.

Nessuno dello staff del ministero e del governo, a leggere la relazione illustrativa del disegno di legge, si è minimamente curato solo lontanamente di affrontare i problemi di natura finanziaria, amministrativa e gestionale che l’abolizione delle province comporterà e che i famosi 44 costituzionalisti, dei quali il medico Ministro non sa che farsi, hanno ben evidenziato.

Lo svuotamento-abolizione delle province è solo un salto nel vuoto e nel caos, senza alcuna evidenza di benefici finanziari, senza alcuna strategia: si parla di “accorpare” e “economie di scala”, quando, invece, le funzioni di 107 enti saranno ripartite senza alcuna razionalità tra 20 regioni, 10 città metropolitane, 370 unioni di comuni e oltre 8.100 comuni.

Solo un governo debolissimo, con esecutori gelidi e determinati possono riuscire nell’intento di realizzare una riforma così mal concepita e peggio congegnata. Dunque, possiamo stare certi che questa è l’occasione unica ed irripetibile per arrecare all’Italia l’ennesimo danno irreparabile.

Non perché l’abolizione delle province sia un male in sé, ma per il modo col quale la si sta perseguendo.

Se questa idea fosse davvero utile e necessaria, non si capirebbe perché i risparmi che ne deriverebbero non siano stati presi in alcun modo in considerazione né per il “decreto fare”, né per la manovrina di rientro nel 3% come rapporto deficit/pil, né tra le coperture della legge di stabilità. In effetti, non si saprà mai quali benefici finanziari vi saranno. Si conosceranno solo quelli mediatco-demagogici e le conseguenze negative che nel medio termine si produrranno.

Luigi Oliveri

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