Scuola, riparto di competenze fra enti locali e disabili

Mario Conclave 09/09/13
Scarica PDF Stampa
Con la sentenza n. 3950 del 23 luglio 2013 il Consiglio di Stato si è pronunciato in materia di riparto di competenze fra Provincia e Comune per quel che concerne l’assistenza agli studenti con disabilità. Ma il motivo per cui questa pronuncia appare di particolare interesse è che la questione del riparto di competenze viene risolto non solo in base all’interpretazione letterale della normativa, ma soprattutto in ragione della sua ratio complessiva. Come avremo modo di illustrare nel prosieguo, il criterio interpretativo adottato dai giudici potremmo definirlo di tipo “teleologico”, nel senso che l’apparato normativo e gli istituti disciplinati devono realizzare il diritto all’inclusione sociale della persona con disabilità, di cui il diritto allo studio rappresenta componente fondamentale. Premesso questo, il riparto di competenze tra enti locali deve essere funzionale alla messa in atto di quelle misure che concorrono a rendere effettivi tali diritti e che, nel caso di specie, si concretizzano nel supporto organizzativo strumentale alla presa in carico della persona. È questo l’approccio con cui va letta la sentenza che si commenta.

Il caso oggetto della decisione giudiziale riguarda uno studente con disabilità frequentante un istituto superiore statale, affetto da una grave malattia con necessità di assistenza continua, di sostegno per la didattica di livello alto e di assistenza educativa per le relazioni sociali in ambito scolastico. In ragione di ciò, nella sentenza di primo grado il Tribunale aveva affermato la sussistenza del diritto dello studente ad un insegnante di sostegno e ad un assistente alla persona per 10 ore settimanali da aggiungere a quelle di cui già fruiva, così come previsto dall’art. 13, c. 3 della l. n. 104 del 1992, il cui relativo onere ricadeva sull’amministrazione provinciale, ai sensi dell’art. 139 del d.lgs. n. 112 del 1998.

L’onere gravante sull’amministrazione provinciale rappresenta il motivo di impugnazione della decisione del TAR da parte della provincia, secondo cui la competenza di sostenere gli oneri per l’assistenza alla persona è del Comune, mentre ad essa spetterebbe unicamente il servizio di trasporto. Secondo la provincia, infatti, l’art. 139 del d.lgs. n. 112 del 1998 in materia di riparto di competenze affiderebbe all’amministrazione provinciale il solo servizio di “supporto organizzativo”, nel quale non andrebbero ricompresi i servizi di diretto e personale sostegno della persona con disabilità, “trattandosi di servizi alla persona rientranti negli ordinari compiti dei Comuni nell’ambito della gestione dei servizi sociali resi in favore della comunità e dei singoli; ciò tanto più che spetterebbero all’Amministrazione provinciale solo compiti di coordinamento, programmazione e supervisione nella rete dei servizi sociali resi in favore dei soggetti disabili”. E ancora, richiamando l’art. 13 del d.lgs. n. 267 del 2000, la Provincia sostiene che la competenza generale negli interventi di rilievo sociale e nei relativi settori di sostegno ai bisogni dei singoli sia dei Comuni, mentre la competenza di altre pubbliche amministrazioni in ambito sociale dovrebbe rinvenirsi in norme specifiche che, nel caso di specie, non prevedono il servizio di assistenza alla persona degli studenti disabili frequentanti le scuole medie superiori.

La decisione del Consiglio di Stato interviene su questi profili, fornendo un’interpretazione che – nel far chiarezza fra le diverse fonti che nel tempo hanno disciplinato la materia – è orientata alle conseguenze che il riparto di competenze può avere sull’obiettivo che si prefigge il legislatore: la tutela del diritto allo studio della persona con disabilità, anche ai fini della piena integrazione sociale, da realizzarsi mediante una presa in carico integrata dell’individuo, in base alle sue specifiche esigenze. Diversi sono i passaggi chiave della pronuncia in cui si evince che la realizzazione del diritto fondamentale della persona con disabilità all’inclusione sociale deve avvenire seguendo una metodologia ben precisa che si fonda sulla diagnosi funzionale dell’individuo, in base alla quale vengono definite le misure e le azioni necessarie con strumenti (nel caso di specie il Piano educativo individualizzato) in modo multidisciplinare fra i diversi attori coinvolti. Misure e azioni tarate sulle specificità del singolo individuo e che devono essere monitorate, valutate ed aggiornate in base al variare delle condizioni personali.

I presupposti di questo ragionamento si leggono in due passaggi. Uno è il richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale (n. 80 del 2010), nella quale si è chiarito che i disabili non costituiscono un gruppo omogeneo, poiché sussistono forme diverse di disabilità, alcune di carattere lieve ed altre gravi e che “per ognuna di esse è necessario, pertanto individuare meccanismi di rimozione degli ostacoli che tengano conto della tipologia di handicap da cui risulti essere affetta in concreto la persona”. La Corte ha espresso in una frase due principi importanti: la necessità di un metodo individualizzato nella presa in carico della persona e la necessità di rimuovere quegli ostacoli che nello specifico ambiente, ostacolano il funzionamento della persona. È in sostanza l’approccio bio-psico-sociale.

Il secondo passaggio di rilievo è dato dal richiamo della precedente sentenza del Consiglio di Stato del 3 ottobre 2012 n. 5194 circa l’erogazione di prestazioni previste dal Piano educativo individuale (Pei). Il principio espresso in quella sede, sulla scorta dei rilievi della Corte Costituzionale, è che “l’esigenza di tutela dei soggetti deboli si realizza non solo con pratiche di cura e riabilitazione, ma anche attraverso il loro pieno ed effettivo inserimento, oltre che nella famiglia, anche nella scuola e nel mondo del lavoro”. Le misure e le azioni previste, quindi, non possono ridursi a pratiche medico-sanitarie, ma devono comprendere quelle di tipo sociale (o di altro genere) affinché si realizzi il pieno inserimento della persona nei diversi ambiti di vita.

Questi principi costituiscono la premessa che consente al Consiglio di Stato di chiarire, prima ancora del riparto di competenza, la nozione di “servizi di supporto organizzativo del servizio di istruzione”, che costituisce la materia del contendere fra Provincia e Comune.

L’art. 139 del d.lgs. n. 112 del 1998 in materia di “servizi di supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in situazione di svantaggio” ha attribuito alle provincie la competenza per l’istruzione secondaria superiore e ai comuni quella per gli altri gradi inferiori di scuola. Ma il problema interpretativo riguarda cosa debba annoverarsi fra i servizi di supporto organizzativo. La tesi sostenuta dalla provincia è che “i servizi di supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in situazione si svantaggio” andrebbero ridotti esclusivamente nel servizio di trasporto dall’abitazione all’istituto scolastico e viceversa, con la conseguenza che l’assistente educatore personale sarebbe a carico del Comune. Tesi rigettata dal Consiglio di Stato secondo cui, invece, l’assistente educatore personale – il quale svolge un’attività di supporto materiale individualizzato, estranea all’attività didattica in senso stretto – non va annoverato nell’ambito generale degli interventi e dei servizi sociali alla persona affidati al Comune, “costituendo piuttosto attuazione concreta della speciale materia dell’istruzione scolastica oggetto del trasferimento di funzioni dallo Stato agli enti locali”. In ossequio al principio della rimozione degli ostacoli che impediscono alla persona con disabilità di interagire in un determinato ambiente, la figura dell’assistente educatore serve proprio a rimuovere gli ostacoli che impediscono la fruizione di un servizio educativo.

Questa interpretazione del Consiglio di Stato è sorretta dal dato letterale dell’art. 139 – secondo cui la ripartizione tra province e comuni attribuisce alle prime la competenza per l’istruzione secondaria superiore e ai secondi gli altri ordini di grado inferiore – ma è sorretta soprattutto dai principi che abbiamo in precedenza evidenziato. I giudici affermano, infatti, che la specificità della materia cui ineriscono compiti e funzioni oggetto di riparto di competenze, nonché le peculiari e concrete misure che ne costituiscono l’attuazione, “esclude in radice che gli stessi possano essere genericamente ricompresi nell’ambito dei servizi integrati sociali alla persona, trattandosi di particolari modalità di concreta attuazione del diritto allo studio ed all’integrazione scolastica”.

E qui si inserisce un altro passaggio di notevole rilievo della sentenza che si commenta. Che la misura dell’assistenza personale sia attinente all’istruzione scolastica e non ai più generali servizi sociali e alle persone è comprovato dalla “in equivoca” circostanza che essa trova fondamento e giustificazione nel Piano educativo individualizzato (PEI), predisposto per il singolo alunno con disabilità ed oggetto di continua verifica ed aggiornamento in relazione alle sue specifiche esigenze.

Il Pei è l’atto nel quale vengono definite le misure e gli strumenti di sostegno allo studente con disabilità, definito congiuntamente, con la collaborazione dei genitori della persona handicappata, dagli operatori delle Usl e, per ciascun grado di scuola, dal personale insegnante specializzato, con la partecipazione dell’insegnante operatore psico-pedagogico. La base essenziale nella sua formulazione è il profilo dinamico-funzionale della persona e, anche in ragione del suo variare, questo atto deve essere continuamente sottoposto a verifiche e controlli e aggiornato, anche al variare del profilo di funzionamento.

La normativa in materia di integrazione scolastica indica il Pei quale strumento per la piena garanzia del diritto all’educazione e all’istruzione della persona; diritto che, come ricordano i giudici, trova tutela nella Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. In ragione di ciò, tutte le misure in esso compreso vanno inquadrate quali supporto organizzativo al servizio educativo.

Le implicazioni di questa base argomentativa scelta dai giudici inducono ulteriori riflessioni. Annoverare le misure comprese nel Pei quale supporto organizzativo al servizio educativo significa che sono misure che non hanno natura autonoma, ma hanno effettività solo nell’ambito di una regia multidisciplinare fornita da questo atto amministrativo.

Questa interpretazione è in linea con un’altra pronuncia (di primo grado, Tar di Catanzaro, sentenza n. 440 del 12 aprile 2013) sull’art. 14 della l. n. 328 del 2000, in materia di progetto individuale per la persona disabile. Atto che viene predisposto dai comuni, d’intesa con le aziende unità sanitarie locali, sulla base di una valutazione diagnostico funzionale, per definire le prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i servizi alla persona a cui provvede il comune in forma diretta o accreditata, con particolare riferimento al recupero e all’integrazione sociale, nonché le misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale. In questa sentenza il Tar ha evidenziato come il legislatore abbia indicato un modello di servizi incentrato su un progetto di “presa in carico globale” della persona disabile, che a differenza delle altre ipotesi di mera erogazione di un servizio specifico, intende garantire all’utente quel supplemento di garanzie, che trascende la modalità di smistamento della persona all’interno di una gamma di contenitori e si propone l’obiettivo ulteriore di promuovere l’autorealizzazione della persona disabile e il superamento di ogni condizione di esclusione sociale, avvalendosi anche della metodologia del cosiddetto “lavoro di rete”, che punta ad una visione in chiave unitaria dei bisogni della persona con disabilità, mediante lo strumento del progetto individuale per la persona disabile, riconducibile al concetto di adattamento ragionevole contenuto nella Convenzione Onu per i diritti delle persone disabili e al modello bio-psico-sociale dell’ICF.

Questa interpretazione è in linea con quella del Consiglio di Stato che del Pei ha sottolineato – come si è detto – la necessità di considerare le misure e gli strumenti ivi previsti in modo organico e in piena interrelazione.

Peraltro la connessione fra progetto globale e Pei è esplicitamente evidenziata dal Tar Catanzaro, il quale afferma che il primo costituisce il documento generale, cui devono uniformarsi i diversi progetti e programmi specifici previsti nel nostro ordinamento tra i quali per l’appunto il Pei. Ma occorre considerare che diversi sono gli ambiti di vita di ogni persona e, quindi, la stessa logica deve essere seguita, sul fronte lavorativo, nel considerare il progetto di inserimento lavorativo mirato di cui all’art. 2 e seguenti della l. n. 68 del 1999 che costituisce anch’esso, sulla base della diagnosi funzionale della persona, lo strumento con cui garantire la piena effettività del diritto al lavoro delle persone con disabilità.

Articolo scritto in collaborazione con Maria Cristina Cimaglia

Mario Conclave

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento