La riforma delle province dopo la sentenza della corte costituzionale. Parte II

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Segue l’articolo “La riforma delle province dopo la sentenza della corte costituzionale. Parte I

Il riordino territoriale

Oggetto della dichiarazione di incostituzionalità sono anche le disposizioni di cui all’art. 17 del D.L. n. 95/2012, mediante le quali era stato disposto il riordino territorialedella totalità delle Province delle Regioni a statuto ordinario, salve le province nel cui territorio si trova il comune capoluogo di regione, e quelle confinanti solo con province di regioni diverse da quella di appartenenza e con una delle istituende città metropolitane.

I commi da 2 a 4 del menzionato art. 17 disciplinavano le scansioni procedurali del suddetto riordino, il quale sarebbe dovuto avvenire alla stregua dei requisiti minimi della dimensione territoriale e della popolazione residente, individuati da apposita deliberazione del Consiglio dei Ministri.

Sulla base di tali requisiti, il Consiglio delle autonomie locali – CAL (o, in mancanza, analogo organo di raccordo tra regione ed enti locali) doveva trasmettere alla Regione un’ipotesi di riordino delle province presenti nel territorio regionale. Le Regioni, anche in mancanza della suddetta ipotesi, avrebbero a loro volta trasmesso al Governo una proposta di riordino delle province. Il riordino era disposto con atto legislativo di iniziativa governativa, sulla base delle proposte regionali pervenute, ovvero previo parere in Conferenza unificata in loro assenza.

È opportuno rammentare che, sulla base della predetta disciplina, numerose Regioni avevano provveduto a trasmettere al Governo delle proposte di riordino formulate sulla base delle ipotesi di riordino dei rispettivi CAL (ovvero degli organi di raccordo tra Regione ed enti locali).

Lo Stato aveva quindi adottato il D.L. n. 188/2012, mediante il quale era stato disposto l’accorpamento delle Province che non rispettavano i predetti requisiti minimi di dimensione territoriale e popolazione residente, riducendo a 51 il numero degli enti provinciali (numero comprensivo anche delle istituende città metropolitane).

Tale decreto legge è, tuttavia, decaduto per mancata conversione in legge. Successivamente, l’art. 1, comma 115, della L. n. 228/2012 ha prorogato al 31 dicembre 2013 il termine di conclusione della menzionata procedura di riordino.

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della totalità delle previsioni recate dall’art. 17 del D.L. n. 95/2012.

Pertanto, viene espunta dall’ordinamento anche l’intera disciplina relativa alla procedura di riordino territoriale delle Province, la quale peraltro non era giunta a compimento in ragione della mancata conversione in legge del menzionato D.L. n. 188/2012.

Del resto, come si è già avuto modo di osservare, nello stesso comunicato si legge espressamente che “il decreto-legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate nel presente giudizio”.

Conseguentemente, rimane immutato il numero delle Province finora esistenti nell’ambito delle singole Regioni. Parimenti immutate sono le circoscrizioni territoriali provinciali, per la modifica delle quali sarà necessaria l’osservanza della particolare procedura disciplinata dall’art. 133, comma 1, Cost.4.

Ed infatti tale disposizione costituzionale viene espressamente richiamata dal comunicato della Corte costituzionale quale parametro violato dalle disposizioni di cui all’art. 23 del D.L. n. 201/2011 e agli artt. 17 e 18 del D.L. n. 188/2012.

Istituzione delle città metropolitane

In ultimo, la dichiarazione di illegittimità costituzionale resa nota con il menzionato comunicato stampa del 3 luglio u.s. riguarda altresì l’art. 18 del D.L. n. 95/2012.

L’art. 18 aveva introdotto una nuova disciplina delle modalità di istituzione delle città metropolitane.

Le Province di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria dovevano essere soppresse, con contestuale istituzione delle relative città metropolitane, il 1° gennaio 2014.

Il territorio della città metropolitana doveva coincidere con quello della provincia contestualmente soppressa, fermo restando il potere dei comuni interessati di deliberare, con atto del consiglio, l’adesione alla città metropolitana o, in alternativa, a una provincia limitrofa.

Era istituita la Conferenza metropolitana composta dai sindaci e dal presidente della provincia, con il compito di elaborare e deliberare lo statuto della città metropolitana entro il novantesimo giorno antecedente alla scadenza del mandato del presidente della Provincia o del commissario, ove anteriore al 2014 ovvero nel caso di scadenza del mandato del presidente successiva al 1º gennaio 2014, entro il 31 ottobre 2013.

La deliberazione di approvazione dello Statuto andava adottata a maggioranza dei due terzi dei componenti della Conferenza e, comunque, con il voto favorevole del sindaco del comune capoluogo e del presidente della Provincia.

In caso di mancata approvazione dello statuto entro il 31 ottobre 2013, il sindaco metropolitano sarebbe stato di diritto il sindaco del comune capoluogo, fino alla data di approvazione dello statuto della città metropolitana.

Alla città metropolitana venivano attribuite:

le funzioni fondamentali delle province;

le seguenti ulteriori funzioni fondamentali:

1) pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali;

2) strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, nonché organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano;

3) mobilità e viabilità;

4) promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale.

Da ultimo, l’art. 1, comma 115, della L. n. 228/2012 ha sospeso l’applicazione del menzionato art. 18 del D.L. n. 95/2012 fino al 31 dicembre 2013.

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 del D.L. n. 95/2012 nella sua interezza.

Conseguentemente, viene caducata la previsione relativa alla soppressione delle Province espressamente richiamate ed alla contestuale istituzione delle relative città metropolitane. Allo stesso modo, vengono espunte dall’ordinamento le disposizioni relative agli organi di tale ultimo ente locale, alle funzioni e risorse dello stesso, allo statuto.

La dichiarazione di incostituzionalità del menzionato art. 18 sembrerebbe poter determinare la reviviscenza delle disposizioni dallo stesso espressamente abrogate, relative all’istituzione delle città metropolitane. Si tratta, in particolare, dei citati artt. 23 e 24, commi 9 e 10, della L. n. 42/2009 (recanti previsioni transitorie per la disciplina di prima attuazione degli enti locali da ultimo richiamati, fino alla data di entrata in vigore di apposita legge ordinaria che ne disciplini le funzioni fondamentali, gli organi e il sistema elettorale), nonché degli artt. 22 e 23 del D.Lgs. n. 267/2000 (recanti la disciplina ordinaria per la loro istituzione).

 Il ddl costituzionale

La risposta, con inusitata tempestività, data dal Governo all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale, senza neanche attendere le motivazioni, mostra tutte le sue contraddizioni e incoerenze.

Il d.d.l. costituzionale per l’abolizione delle Province, approvato dal Governo il 5 luglio scorso, è privo di logica e di coerenza rispetto all’ambizioso disegno complessivo di riforma sollecitato dal Governo stesso.

Basta ricordare che il Senato della Repubblica ha approvato nella seduta di giovedì 11 luglio il disegno di legge costituzionale per l’istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali, che all’art. 2, comma 10, prevede che il Comitato deve disporre la consultazione delle autonomie territoriali, a fini di coinvolgimento nel processo di riforma. Evidentemente, in particolare per la modifica del titolo V, appare necessaria la consultazione di Regioni, Province e Comuni.

Non si comprende, pertanto, la coerenza del Governo che ha ritenuto invece di accelerare l’approvazione di un disegno di legge costituzionale per la soppressione delle Province, non organico al progetto complessivo di riforma e per l’approvazione del quale il Presidente del Consiglio Letta ha auspicato tempi brevissimi.

Il d.d.l. costituzionale del Governo ignora i principi fondamentali della Costituzione stessa.

Tra questi principi, vi è quello del riconoscimento e promozione delle realtà locali, solennemente proclamato all’art. 5 della Carta Costituzionale: “La Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”.

Ora, se la promozione va intesa quale leale collaborazione tra tutti i soggetti istituzionali che compongono la Repubblica, o meglio disponibilità da parte di questi a cooperare ogniqualvolta è in discussione una problematica inerente le autonomie locali territoriali, allora, anche una legge di modifica costituzionale dovrà rispettare il contenuto di questo principio, prevedendo forme concertative tra le diverse realtà istituzionali che compongono l’ordinamento repubblicano.

Una soppressione delle Province decisa autoritativamente da parte dello Stato (art. 1, comma 1, ddl costituzionale), in assenza di qualunque meccanismo che coinvolga Comuni e Regioni, sembra porsi in contrasto proprio con il principio descritto dall’art. 5.

Questo, beninteso, non significa immodificabilità dell’attuale sistema; significa che, in materia di delimitazione e/o soppressione delle circoscrizioni provinciali (ma il discorso può riguardare anche le Regioni ed i Comuni), allo Stato è preclusa la possibilità di stabilire d’imperio la loro identificazione territoriale e, di conseguenza, anche la loro cancellazione.

Tali principi si ritrovano affermati nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Nella sentenza 106/2002 si legge: “Il nuovo Titolo V ha disegnato di certo un nuovo modo d’essere del sistema delle autonomie. Tuttavia i significativi elementi di discontinuità nelle relazioni tra Stato e regioni che sono stati in tal modo introdotti non hanno intaccato le idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio autonomistico che erano presenti e attive sin dall’inizio dell’esperienza repubblicana. Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale attorno al quale esse ruotavano abbia trovato oggi una positiva eco nella formulazione del nuovo art. 114 della Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare.

Se è vero che le Province, al pari dello Stato, delle Regioni e dei Comuni, nel disegno costituzionale (rafforzato dal nuovo titolo V, ma già presente nel disegno costituzionale originario) hanno la comune essenza fondata sul principio democratico e sulla sovranità popolare, appare evidente che non può essere un semplice tratto di penna a cancellare le Province dall’ordinamento costituzionale;

Ulteriore e chiara conferma di tale disegno costituzionale è rinvenibile nella VIII disposizione transitoria e finale della Costituzione: “Le elezioni (…) degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali sono indette entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione”.

Per la nostra Costituzione, sin dalla sua entrata in vigore nel 1948 ed evidentemente prima della riforma del titolo V, è un dato indiscutibile la natura elettiva e democratica delle Province appunto, come affermato dalla Consulta, espressione del principio democratico e della sovranità popolare su cui si fonda il nostro ordinamento in virtù dell’art. 1 della Costituzione.

E l’art. 5 “La Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali” non fa che sancire, tra i principi fondamentali, questo riconoscimento, dando piena e intangibile copertura costituzionale all’assetto storico delle autonomie locali.

Si trascura il tema fondamentale: le funzioni, le competenze e i servizi. La vera grande riforma sarebbe la chiarificazione delle funzioni dei diversi soggetti del sistema, che sono poi l’aspetto che comporta la maggiore spesa ed i maggiori costi, evitando sovrapposizione di interventi sulla medesima materia, individuando l’ambito territoriale ottimale e il livello di governo migliore per l’esercizio delle funzioni, precisando con chiarezza ed univocità chi fa cosa. La nuova Carta delle Autonomie, il cui esame si è bloccato nel corso della passata legislatura, dovrebbe essere la base fondamentale di una vera riforma, fuori dagli slogan e dalle proposte demagogiche.

Dalle motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale, dopo l’udienza del 2 luglio, probabilmente si troveranno nuovi elementi di approfondimento.

Nulla è immodificabile, certo. Il nostro ordinamento va riformato e reso più efficiente.

Ma la soluzione non può essere un intervento spot senza un’approfondita analisi.

Traendo spunto da un’analisi del prof. Cassatella dell’Università di Trento, va sottolineato come ogni dibattito sul tema dovrebbe tener conto che la scelta organizzativa costituente è stata anche un’opzione di valore, qualificando la Provincia come ente territoriale necessario ai fini della realizzazione degli obiettivi della Repubblica a sensi degli artt. 2 e 3, comma 2, della Costituzione.

Qualche esempio può aiutare ad inquadrare meglio i termini del discorso: abolendo le Province si dovrebbero automaticamente abolire gli strumenti di intervento di queste amministrazioni, come i piani urbanistici di coordinamento, gli strumenti di programmazione di servizi pubblici di rilevanza provinciale, o, ancora, gli strumenti di tutela di aree protette, di controllo delle attività formative, di sostegno all’imprenditoria locale.

Eliminare l’ente territoriale di riferimento implicherebbe anche la cancellazione o il trasferimento di funzioni, attività e servizi riconducibili alla Provincia, ed una possibile – se non certa – perdita delle garanzie poste a tutela di interessi e diritti della stessa cittadinanza.

Utilizzando come termine di paragone l’attività di pianificazione urbanistica, cancellando la Provincia si eliminerebbe anche il piano urbanistico di coordinamento provinciale; lo sviluppo del territorio sarebbe così direttamente affidato ai Comuni, con evidenti problemi di raccordo fra le scelte effettuate dalle singole amministrazioni locali, o, alternativamente, al dirigismo della Regione, sacrificando le esigenze delle collettività locali e le specificità di ciascun territorio.

Per scendere ancor più nel concreto, la localizzazione di una discarica di rifiuti a servizio di cinque piccoli Comuni montani sarebbe probabilmente impossibile se si cercasse lo spontaneo accordo fra amministrazioni locali, o se si affidasse il tema all’agenda di una Regione con altre – evidenti – priorità.

Non ne verrebbe svilito solamente il principio di sussidiarietà, inteso come metodo razionale di esercizio della funzione amministrativa, ma anche, e soprattutto, la tutela di diritti ed interessi fondamentali per la collettività stessa.

E’ stata talmente diffusa la foga demagogica nel sostenere la soppressione o il riordino delle Province, che si sono del tutto ignorate le funzioni oggi svolte dalle stesse.

Qualunque analisi di diritto comunitario comparato dimostra come l’ente intermedio costituisca una costante dei vari ordinamenti europei proprio in forza della sua “necessità funzionale” e dal bisogno di erogare determinate prestazioni e servizi amministrativi in ambiti territoriali predefiniti ed a favore della collettività che vive ed opera in quei determinati spazi.

Il vero problema giuridico riguarda dunque l’efficacia dell’azione di tali enti, e, dunque, la loro idoneità a realizzare i fini stabiliti dalla Costituzione o dalla legge.

La creazione degli enti intermedi, dipendendo in ultima analisi da necessità di ordine funzionale che le Costituzioni o le leggi ribadiscono sul piano normativo, è dunque strettamente legata agli interessi pubblici che questi organismi devono tutelare o soddisfare, con i mezzi garantiti dall’ordinamento, e, dunque, alla responsabilità politico-istituzionale dei propri rappresentanti.

La questione non è, allora, quella di abolire le Province, ma del modo in cui riformarle, consapevoli dell’enorme costo – politico e culturale – di una simile iniziativa, i cui risultati potrebbero essere apprezzati soltanto nel medio periodo e senza i clamori che accompagnano gli inni ad una semplificazione che si rivela, alla prova dei fatti, più complicata delle apparenze.

Il d.d.l. del governo purtroppo trascura del tutto ogni analisi del problema, procede alla mera cancellazione della parola “Province” dai vari articoli della Costituzione e conclude con una norma transitoria “Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale le province sono soppresse e, sulla base di criteri e requisiti generali definiti con legge dello Stato, sono individuate dallo Stato e dalle Regioni, nell’ambito delle rispettive competenze, le forme e le modalità di esercizio delle relative funzioni”.

Il disegno di legge costituzionale però fa salve le Città Metropolitane e lo fa attraverso alcune scelte fondamentali:

La riserva alla legge dello Stato per la definizione di funzioni, le modalità di finanziamento e l’ordinamento delle Città metropolitane, ente di governo delle aree metropolitane;

Il mantenimento delle città metropolitane negli articoli 118, 119 e 120 della Costituzione, così garantendo a tali Enti funzioni amministrative e autonomia finanziaria e copertura costituzionale rispetto a possibili interventi sostitutivi.

Le Città metropolitane – secondo il disegno riformatore – sono enti di governo delle aree metropolitane.

Quindi, ovviamente, enti di area vasta come sono le Province.

Cosa siano, secondo quali criteri e da chi vengono definite le “aree metropolitane” non è chiaro dalla proposta.

Ma o tutta l’Italia viene suddivisa in aree metropolitane governate da un ente denominato “città metropolitana” per le funzioni di area vasta che sostituirebbero le Province, ma è una soluzione priva di senso, oppure si avranno aree del Paese governate da enti di area vasta con funzioni di governo del territorio e altri Comuni, probabilmente i minori, che non avranno più interlocutori sul territorio e che inevitabilmente dovranno dialogare solo con le Regioni che svolgerebbero, per tali aree del Paese, quelle funzioni che sarebbero svolte dalle Città metropolitane.

E se lo Stato, in forza di una disposizione costituzionale quindi inattaccabile, ha la facoltà, con riserva di legge, di stabilire funzioni, ordinamento e finanziamento delle nascenti Città metropolitane, che ruolo residuerà per le Regioni?

Sicuramente vi è un depotenziamento evidente del ruolo di governo del territorio assegnato alle Regioni.

L’intervento spot del Governo quindi non appare accettabile.

L’apertura del confronto sulle riforme costituzionali dovrebbe invece comprendere l’intera organizzazione dello Stato, senza soluzioni acquisite a prescindere da un disegno complessivo.

Il previsto coinvolgimento delle Regioni ed Enti Locali nel dibattito sulle riforme costituzionali è un passaggio fondamentale.

Ci auguriamo a questo punto che, anziché insistere soltanto con l’abolizione delle Province, si proceda prima a delimitare gli spazi d’azione della Pubblica Amministrazione, semplificare e disboscare tutti quegli ambiti di intervento nei quali non ha senso né utilità l’intervento pubblico come oggi esistente, che può rappresentare soltanto un appesantimento di procedure e costi senza benefici.

Quindi va individuato l’ambito territoriale ottimale e il livello di governo migliore per l’esercizio delle funzioni, individuando con chiarezza ed univocità chi fa cosa, per chiarezza, semplificazione ed individuazione certa delle responsabilità, prevedendo dimensioni adeguate per ciascun livello territoriale.

Occorre che le Regioni finalmente diventino un livello di governo, con potere legislativo – e non gestionale e amministrativo come di fatto sono oggi – secondo il disegno costituzionale. E’ un livello di governo troppo distante dai cittadini per continuare a svolgere funzioni amministrative e gestionali di dettaglio, erogazione di servizi alla persona o di gestione del territorio che non sia la pianificazione regionale. E’ la commistione fra il potere legislativo e la gestione che crea una grave anomalia nel nostro sistema. Il soggetto regolatore, quale è la Regione, non può al tempo stesso gestire direttamente ciò che regola, per di più senza controlli adeguati.

Le funzioni amministrative, secondo l’art. 118, sono invece da attribuire a Comuni, Province e Città Metropolitane, quali enti rappresentativi del territorio e conseguentemente soggette al controllo immediato dei cittadini, salvo casi per cui è necessario, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, attribuirle ad un livello superiore.

Ecco che è il Comune, ente più vicino ai cittadini, l’Ente destinatario di tutte le funzioni, soprattutto quelli collegati ai servizi alla persona, che meglio di qualunque altro livello di governo è vicino ai cittadini; alla Provincia quale ente di area vasta vanno attribuite tutte le funzioni, principalmente di gestione del territorio, che non possono essere svolti dai Comuni: viabilità, trasporti, tutela dell’ambiente, formazione professionale, politiche del lavoro, protezione civile, pianificazione territoriale di coordinamento, istruzione scolastica superiore, organizzazione dei servizi pubblici locali (rifiuti, servizio idrico, trasporto pubblico locale), etc.

Bisognerebbe procedere, come da più parti sottolineato, ad un organico processo attuativo della riforma del Titolo V della Costituzione, incentrato su tre assi principali:

  • Valorizzazione dell’autonomia come responsabilità. Comuni e Province devono essere considerati come enti di governo delle rispettive comunità, titolari di una sfera di autonomia che non è loro concessa, ma che si configura quale elemento significativo di una condizione istituzionale che la Carta riconosce perché intrinseca alla loro ragione d’essere, ferma restando ovviamente l’unità e l’indivisibilità del sistema.
  • Riconoscimento di centralità e pari dignità dei soggetti costitutivi della Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost. senza alcuna gerarchia, ma semmai qualificando i ruoli istituzionali dei diversi soggetti del sistema. Da qui, allora, la necessità che il ruolo delle Regione si limiti al carattere legislativo e programmatorio, mentre l’amministrazione e la gestione dei servizi pubblici deve essere incentrata sulle amministrazioni comunali e provinciali.
  • Chiarificazione delle funzioni dei diversi soggetti del sistema, che sono poi l’aspetto che comporta la maggiore spesa ed i maggiori costi, evitando sovrapposizione di interventi sulla medesima materia. La nuova Carta delle Autonomie, il cui esame si è bloccato nel corso della passata legislatura, dovrebbe essere la base fondamentale di una vera riforma, fuori dagli slogan e dalle proposte demagogiche.

Occorre dunque che sulla riforma delle Province e dell’intero assetto delle istituzioni locali si apra un confronto serio, che parta dalla Costituzione, e che affronti fuori dagli slogan e con i conti in mano una questione tanto importante per il Paese.

Carlo Rapicavoli

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