Siciliani, poveri ma belli. I dati allarmanti dell’Istat su povertà e disoccupazione

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“A puvirtà non è virgogna, ma mancu un prio”, che traducendo dal siciliano suona: “la povertà non comporta vergogna, ma non è nemmeno una gioia”.
La crisi sta mettendo in ginocchio tutta italia ma mezza Sicilia non riesce più ad arrivare a fine mese. Secondo dati dell’Istat quasi una famiglia su due (il 47,6%), si trova in “condizioni di deprivazione”. Un dato quasi doppio rispetto a quello nazionale (22,3%).
Sono i nuovi poveri, forse ugualmente belli, ma sicuramente molto meno romantici, di quelli raccontati da Dino Risi, nel suo film del 1957.
La perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni, l’aumento delle tariffe e delle aliquote, la riduzione dell’offerta di servizi pubblici gratuiti ha creato una nuova categoria sociale.
Mentre Romolo e Salvatore, i protagonisti del film di Risi, andavano incontro al boom economico, i nuovi poveri italiani, e quelli siciliani in particolare, vengono da una situazione più agiata e sono stati costretti a rivedere in peggio il loro stile di vita.
Non sono ancora alla povertà assoluta, ma sono obbligati a vivere con meno di mille euro al mese e non sono più in condizioni di garantirsi un “paniere minimo”, fatto di cibarie, abitazione e vestiario.
La situazione precipita in presenza di spese non previste.
I nuovi poveri iniziano a ridursi il numero di pasti proteici giornalieri, abbassano le spese per il riscaldamento della casa, rinunciano a qualsiasi acquisto d’importo rilevante, come elettrodomestici o automobili.
Le altre regioni che stanno conoscendo profondamente questo fenomeno, ma in modo inferiore rispetto alla Sicilia, sono la Basilicata (40,1%) e la Puglia (39,9%).
La situazione siciliana è aggravata ulteriormente dagli altri dati economico-sociali.
La disoccupazione si avvicina al 20%, rispetto al dato nazionale che si attesta al 10,7%. Il tasso di disoccupazione giovanile in Sicilia è terrificante. Più di un giovane su due (51,3%) non trova lavoro e più di uno su tre ha smesso di cercarlo (i cosiddetti “neet”, giovani che non lavorano e si sono rassegnati a questa condizione).
L’indice di povertà dei pensionati è cresciuto di tre punti percentuali rispetto a tre anni fa, arrivando al 27,3% mentre diminuisce la quota di spesa destinata alle politiche sociali per gli anziani che costituiscono circa il 19% dell’intera popolazione, considerato che l’indice di vecchiaia è giunto al 128,3% (rapporto fra giovani e anziani).
Nell’ultimo anno si sono persi 55 mila i posti di lavoro. La quota delle donne siciliane in cerca di occupazione (10,0%) è, sul totale nazionale, quasi il doppio rispetto a quella delle occupate (5,2%).
Secondo i relatori dell’Agorà “Welfare e nuove povertà”, tenutosi a Messina, lo scorso 17 maggio, anche la legge regionale di stabilità, n. 9/2013, appena approvata all’Assemblea Regionale Sicilia, potrebbe incidere ulteriormente sul welfare riducendo drasticamente la capacità di rispondere in maniera compiuta ai fabbisogni sociali.
Questo comporterà, inevitabilmente, nuove discrasie tra le diverse fasce della popolazione con maggiore impoverimento di chi vive già una condizione di precarietà e di vulnerabilità.
Nel 2012, ad esempio, la percentuale dei Comuni siciliani che offriva realmente il servizio di assistenza domiciliare integrata agli anziani e ai disabili non autosufficienti era di appena 8,2% rispetto al 26% del 2006 e al 40% della media italiana.
Il dato positivo è l’accordo tra Anci Sicilia e Regione che ridefinisce il patto verticale incentivato per il territorio siciliano per l’anno 2013, prevedendo che i Comuni possano peggiorare il proprio saldo programmatico per l’importo complessivo di euro 173.287.954 in applicazione della Legge n. 228/2012.
In pratica i Comuni siciliani riacquistano potere di spesa, abbassando i saldi obiettivi del patto di stabilità interno. Il problema sarà acquisire la liquidità necessaria.
Dall’incontro messinese è emersa anche l’inadeguatezza delle politiche sociali a rispondere ai nuovi bisogni e l’impossibilità ad affrontare il contesto di depressione economica con i vecchi strumenti.
Oggi, le politiche di welfare, anche a causa della riduzione delle risorse economiche, scontano una sostanziale inadeguatezza nelle risposte ai vecchi e nuovi bisogni sociali e sollecitano una diversa priorità della spesa pubblica, un nuovo modello di sviluppo centrato sulla persona umana, sulla valorizzazione del territorio e dell’ambiente, sull’interazione sociale e culturale, sulla promozione del benessere soggettivo e collettivo. Questo presuppone un cambiamento di prospettiva che sposta l’accento dalla promozione dell’offerta a quella del sostegno della domanda, declinando i servizi sui singoli fabbisogni.
L’avanzare della crisi e i conseguenti processi d’impoverimento e di disgregazione sociale, impongono la formazione di una nuova classe dirigente del terzo settore capace di governare i cambiamenti in atto, che metta al centro del proprio agire la promozione del benessere collettivo, l’attenzione ai beni comuni, la costruzione di legami sociali, la diffusione di pratiche di accountability.
Secondo i relatori del convegno, in un’epoca di sofferenza sociale la soluzione non è ridurre la spesa sociale, ma ripensare il sistema di welfare attuale, un welfare a vocazione, soprattutto nelle regioni del Meridione, assistenzialista e di sussidi.
Si tratta, invece, di cominciare a costruire un welfare dei servizi, più vicino ai modelli europei che prevedono politiche e servizi cosiddetti social investiment poiché rappresentano un investimento sociale per il futuro e riguardano la conciliazione tra lavoro e famiglia, i servizi per l’infanzia, le pari opportunità, il lavoro, i giovani, la valorizzazione del capitale umano (quindi formazione ed istruzione).
In Italia la spesa pubblica per servizi alla famiglia è l’1,3% del PIL. In Francia è il triplo. L’Italia destina solo lo 0,15% del PIL a interventi diretti alla primissima infanzia. Di conseguenza, solo il 12,7% circa dei bambini da 0 a 3 anni frequenta un asilo nido contra la soglia del 33%, fissata per i paesi europei.
In Sicilia questa spesa è di appena il 6%, così sono quasi inesistenti i servizi per la conciliazione lavoro e famiglia ecc…
La carenza di servizi di welfare per la famiglia determina che bambini e donne in particolare restino ai margini dell’attenzione dello stato sociale e quest’ultime anche lontano dal mercato del lavoro.
Tagliare sul welfare significa aumentare ulteriormente il tasso di disoccupazione femminile caricando sulle spalle delle famiglie e delle donne in particolare, a titolo totalmente gratuito, il lavoro di cura e di assistenza e confermando il carattere familista del nostro welfare con vistose differenze tra le singole regioni

Luciano Catania

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