Il redditometro, il redditest e l’utilizzo delle presunzioni nel diritto tributario

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Molte le pagine della stampa specializzata dedicate, in questi ultimi mesi, all’istituto del “nuovo redditometro”, e molte le perplessità espresse sia dalla più autorevole dottrina che da tutti gli operatori che, quotidianamente, si devono confrontare con i timori – spesso purtroppo fondati – dei loro clienti circa la concreta applicazione dello strumento da parte dell’Agenzia delle Entrate.

L’elemento, a nostro avviso, più preoccupante – tuttavia – non è legato allo specifico provvedimento in esame, ma è dato dallo scenario generale in cui il redditometro viene ad inserirsi, scenario nel quale non possiamo non rilevare un “abuso” dell’utilizzo delle presunzioni poste a favore della pubblica amministrazione.

In altri termini il redditometro, lungi da rappresentare un episodio isolato, può essere considerato la punta di un iceberg alla base del quale troviamo una moltitudine di altri istituti che spesso pongono il contribuente nella condizione di dover offrire “prova contraria” in relazione agli assunti della P.A.: prova che, come autorevolmente affermato diversi anni orsono dal Prof. Beghin spesso si trasforma in una “prova diabolica” per il contribuente, spesso molto difficile da offrire (convegno “La lotta all’evasione tra rispetto delle garanzie costituzionali e giustizialismo fiscale” – 2007).

Esempio classico di presunzione nell’ambito del diritto tributario sostanziale si rinviene nell’articolo 5 del DPR 917 del 1986 in base al quale i redditi prodotti in forma associata (da società semplici, in nome collettivo ed accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato) sono imputati a ciascun socio indipendentemente dalla percezione e proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.

Dalla produzione di reddito in capo alla società -fatto noto- la legge fa derivare l’imputazione della quota al socio -fatto ignoto- a nulla rilevando l’effettiva percezione della stessa.

Si tratta, in questo caso, di una presunzione legale assoluta, che non può essere vinta in alcun modo, a differenza della presunzione introdotta dal secondo comma del medesimo articolo 5, in base al quale le quote di partecipazione agli utili si presumono proporzionate ai valori dei conferimenti, se non risultano determinate diversamente da atto pubblico o scrittura privata autenticata.

Mentre, come abbiamo visto con l’esempio dell’articolo 5, le presunzioni tributarie di diritto sostanziale possono anche essere assolute, quelle che invece si inseriscono tra le norme probatorie, come – per quel che qui ci interessa – quelle dettate in tema di accertamento, devono essere sempre relative.

Se il riferimento alla normalità – regola d’esperienza su cui la presunzione si fonda – serve a legittimare il ricorso alla presunzione, è solo la possibilità di fornire la prova contraria che può garantire una corretta applicazione dell’imposta nel rispetto del dettato costituzionale di cui all’articolo 53.

Fin dagli anni ’70 la Corte Costituzionale ha ammesso l’utilizzo delle presunzioni nell’ordinamento tributario “al fine di evitare l’evasione e nell’interesse della giusta e regolare percezione dei tributi” considerando le stesse “legittime se si fondano sulla comune esperienza” (Corte Costituzionale sentenza n.109/1967) ma specificando, al contempo, la necessità che queste siano sempre relative, poiché “l’esclusione della prova contraria romperebbe il collegamento effettivo tra obbligazione e presupposto economico” (Corte Costituzionale sentenza n.200/1976).

Come anticipato, le presunzioni sono introdotte per rendere meno gravosa l’attività accertatrice dell’amministrazione: questa “facilitazione” non può e non deve, ovviamente, trasformarsi in un onere eccessivo per che deve offrire la prova contraria, pena, evidentemente, la violazione dei sacrosanti principi di origine costituzionale della tassazione legata ad una capacità contributiva reale e di un diritto di difesa effettivo.

Poste queste considerazioni di carattere generale, e tornando allo scenario attuale in cui va ad inserirsi lo strumento del redditometro, ricordiamo che lo stesso si affianca agli studi di settore (volti a determinare, induttivamente, i ricavi di professionisti ed imprese) ed ad un’ampia gamma di procedure accertative in cui l’inversione dell’onere della prova, anche se non prevista o cristallizzata in precise disposizioni normative, da eccezione diviene, di fatto, la regola.

Quotidianamente gli operatori si devono destreggiare tra i concetti di “abuso del diritto”, e di “frode carosello”, di presunte partecipazioni a disegni fraudolenti od evasivi, di presunti ricavi o compensi riconducibili a versamenti o prelevamenti “non giustificati”, fattispecie tutte ove la difficoltà della prova contraria a volte rischia davvero di risolversi nella tassazione di ricchezze fasulle e non realizzate.

Così, in relazione ai presunti intenti elusivi sarà il contribuente a dover dare contezza dello “scopo economico” della sua attività ….. in relazione alle frodi carosello sarà il contribuente a dover dimostrare che “non sapeva o non poteva sapere” dell’esistenza di un disegno fraudolento caratterizzante le operazioni poste in essere dal suo fornitore ….. in relazione al pagamento dei dazi doganali sarà l’importatore a dover sopportare l’onere dell’eventuale maggior imposta anche nel caso di errata applicazione dovuta a certificati di origine falsificati nel paese di provenienza del prodotto (magari a migliaia di chilometri di distanza) …..

E non si pensi che tutto ciò riguardi solo le grandi imprese o complesse ed articolate operazioni commerciali: l’istituto dell’abuso del diritto, ad esempio, è spesso richiamato dall’Agenzia delle Entrate per giustificare maggiori pretese in tema di agevolazioni per l’acquisto della prima casa o di imposta sulle successioni.

Così come lo strumento dell’abuso del diritto può rivelarsi assai “pericoloso” per i contribuenti, così pure il redditometro, che permetterà all’Agenzia di individuare in via presuntiva il reddito di un soggetto in base alle spese da questo sostenute od, in riferimento ad alcune tipologie (alimentari, abbigliamento, riscaldamento ecc.) in base al maggior valore tra le spese sostenute e quelle indicate dall’Istat come tipiche per il cluster di appartenenza (determinato in base all’età, la composizione del nucleo familiare, la zona territoriale ecc).

Senza affrontare le diverse criticità dell’istituto, prima tra tutte la violazione della riserva di legge di cui all’articolo 23 della Costituzione, evidenziamo come il redditometro introduce degli inaccettabili giudizi di merito sulle scelte del contribuente, giudizi etici che non possono essere, a nostro avviso, accettati, in uno Stato di diritto.

Basti, per tutti, un esempio elaborato tramite il software ufficiale “redditest” fornito dall’Agenzia:

Famiglia, al nord, composta da genitori più due figli; redditi dichiarati 130.000,00, casa di proprietà di 150 mq. Due autovetture, spese per istruzione, assicurazioni ecc. A parità di tutte le altre voci, in un primo esempio si sono indicate spese per vacanze pari a 30.000,00 Euro e spese per gioielli e preziosi pari a 7.000,00 Euro, mentre in un secondo esempio si sono invertiti gli importi, con spese per vacanze pari a 7.000,00 Euro e per gioielli pari a 30.000,00 Euro.

Mentre nel secondo caso il reddito dichiarato è risultato “congruo” rispetto alle spese, nel primo caso il redditest ha evidenziato un’anomalia di “non congruità” evidentemente immotivata se non sulla scorta di un giudizio, non certo di carattere economico, rispetto alla scelta di spesa tra vacanze o beni preziosi !

Fabiola Del Torchio

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