Geni umani: il brevetto sotto l’esame della Corte Suprema americana

Letizia Pieri 22/04/13
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E’ lecito brevettare un gene? E’ questa la questione all’esame dei nove membri della Corte Suprema americana, la cui decisione in materia ricadrà automaticamente sia sulla direzione poi intrapresa dalla direzione scientifica in merito alle malattie genetiche, sia sull’importo degli investimenti riservati allo progresso dei farmaci mirati. Dalla discussione in corso in questi giorni sta affiorando con sempre maggiore chiarezza una netta scissione tra chi sostiene che i geni, incarnando una pura manifestazione naturale e non ‘intellettiva’, siano da considerare non brevettabili, e chi invece paventa una decrescita degli investimenti verso questo promettente ramo farmacologico nel qual caso gli interessi finanziari degli imprenditori cessassero di essere salvaguardati. Il caso posto sotto esame della Corte Suprema ha esplicitamente a che fare con la causa inoltrata dalla Association for Molecular Biology contro la società Myriad Genetics, colpevole di aver brevettato i geni correlati con la predisposizione al genoma al seno ed alle ovaie.

Già nel 2010 l’American Civil Liberties Union vinse una causa contro la ditta oggi citata, la quale detiene il brevetto di due geni chiamati BRCA1 e BRCA2, implicati appunto in alcune forme di tumore mammellare. L’intera diatriba sembra, però causare problemi già a partire dal modo in cui viene posta, richiedendo pertanto una pressoché totale riformulazione. Il genoma è il patrimonio genetico conservato nel Dna dei cromosomi cellulari, caratteristico di ogni individuo e di ogni specie di vivente. Dal punto di vista chimico, esso è dato dalla sequenza dei nucleotidi, le unità costituenti il Dna. Tra il 1990 e il 2003 un consorzio di istituzioni pubbliche di ricerca guidato dal National Human Genome Research Institute (NHGRI) degli Stati Uniti ha ingaggiato una vera e propria gara contro il colosso privato Celera Genomics di Craig Venter al fine di decodificare il genoma umano e pubblicarlo prima che lo stesso Venter potesse brevettarlo. L’Italia, che da principio era parte integrante del consorzio ha deciso di estromettersi, causa carenza di fondi. Il consorzio pubblico vinse la gara e il genoma umano non è stato brevettato. Il problema, tuttavia, non è stato risolto. O almeno non completamente. Il genoma, al di là della questione etica e morale, richiede studi complessi per l’identificazione di ogni singolo gene (basti pensare che il genoma umano ne contiene 30.000) in tutte le rispettive varianti fisiologiche e patologiche. Stando a queste premesse, dunque, ogni studio successivo è teoricamente passibile di brevetto e effettivamente, alla fine del 2009, è stato brevettato, in una forma o nell’altra, circa un quarto dei geni umani. Da allora i brevetti sono accresciuti in maniera esponenziale, tant’é che alcuni sono giunti a stimare che ne risulta coperto quasi l’intero genoma. Prima della decisione della Corte Suprema, l’ufficio brevetti degli Stati Uniti, United States Patent and Trademark Office (USPTO), ha formalizzato le seguenti indicazioni: l’identificazione di una sequenza genetica da sola non era suscettibile di brevetto, ma l’isolamento di un gene dal resto del genoma risultava brevettabile se lo scopritore era in grado di dimostrare “una utilità specifica, sostanziale e credibile” ai fini della propria scoperta. Ad esempio, un ricercatore avrebbe potuto brevettare il gene identificato solo di fronte alla dimostrazione che grazie a questa identificazione si giungeva a costruire uno strumento, a titolo esemplificativo, terapeutico, utile per curare qualche malattia genetica.

Anche le applicazioni diagnostiche ammettevano la brevettazione, ma la pressione da parte di istituzioni autorevoli come NIH e NHGRI perché ne fossero escluse ha conosciuto una crescita sempre più forte. Le norme legali vigenti, soprattutto negli Usa, dietro non pochi pareri autorevoli, tenderebbero ad occultare il nodo sostanziale della questione. Se infatti si vagliano le due passibili alternative brevetto sì/brevetto no, ci si può rendere immediatamente conto delle pesanti applicazioni remunerative che sottostanno al settore della sanità e che dunque, in altri termini, arrivano a vertere principalmente la decisione sui tempi e sui  modi con cui i cittadini devono sostenere il costo della ricerca genetica. Stando così le cose, assecondando l’orientamento di chi sostiene l’impossibilità del brevettole industrie farmaceutiche e di diagnostici non saranno più interessate a finanziare questa ricerca, il cui costo dovrà quindi ricadere interamente sullo Stato, e cioè sulle tasse pagate dai cittadini. Se invece si abbraccia l’opzione “brevetto si” le stesse industrie si mostreranno ben disponibili nel farsi carico dei costi della ricerca e ne faranno pagare ai cittadini ‘soltanto’ i risultati, maggiorando i costi dei kit diagnostici o gonfiando quelli delle eventuali applicazioni terapeutiche.

Letizia Pieri

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