Delitto Cogne: responsabilità della madre tra castigo e reintegrazione

Letizia Pieri 13/04/13
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Il delitto di Cogne è stato uno dei casi di cronaca nera maggiormente travagliati del panorama nazionale più recente. L’omicidio avvenne il 30 gennaio 2002 in una villetta di Montroz, frazione di Cogne, Valle D’Aosta, a danno di un bambino di tre anni, Samuele Lorenzi, che dormiva solo in casa. La risonanza mediatica del caso assunse fin da principio un incredibile spessore, in virtù soprattutto del fatto che, nel mirino degli inquirenti, cadde quale sospettata principale la madre stessa della vittima, Annamaria Franzoni, l’unica ad aver lasciato il bambino vivo, prima di accompagnare il fratello maggiore alla fermata dello scuolabus, pochi metri distante da casa. La cassa mediale costruita attorno al delitto di Cogne fu poi fomentata dalla svariate apparizioni televisive dell’allora unica imputata, la quale, su parere degli esperti d’indirizzo colpevolista, dietro strategia della difesa, avrebbe congetturato un utilizzo calibrato del mezzo televisivo per ottenere l’appoggio dell’opinione pubblica.

Nel 2004, Annamaria Franzoni venne condannata in primo grado, dietro procedimento con rito abbreviato, a 30 anni di reclusione con l’accusa di omicidio volontario di Samuele Lorenzi, aggravato dal legame parentale. Lo svolgimento delle indagini difensive da parte dell’avvocato Carlo Taormina, tramite l’operato dei rispettivi consulenti, giunse alla produzione di prove la cui genuinità venne, però contestata sfociando nel cosiddetto Cogne bis, una nuova vicenda dibattimentale aperta per calunnia e frode processuale. Nel processo furono imputate, oltre alla Franzoni, al marito Stefano Lorenzi  ed allo stesso Taormina, altre undici persone. Il 27 aprile 2007 la Corte d’Assise d’appello condannò l’imputata alla pena detentiva di 16 anni; la riduzione della pena rispetto alla sentenza di primo grado fu attribuita, grazie al patteggiamento, alla concessione delle attenuanti generiche.

Il 21 maggio 2008 la Suprema Corte convalidò la sentenza d’appello, rendendo risolutiva la condanna, la quale ad oggi, per via dell’indulto, si è abbreviata a 13 anni di reclusione. A fine luglio 2008 si resero note le cinquanta cartelle comprensive delle motivazioni poste alla base della sentenza definitiva. Nel novembre dello stesso anno, una perizia psichiatrica, la sola a cui la donna avesse concesso di sottoporsi, comprovò il rischio di reiterazione del reato, negandole dunque la possibilità di incontrare il figlio maggiore, Davide, al di fuori dell’istituto carcerario. Il 26 gennaio, la Procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio per la donna, già detenuta presso il carcere bolognese della Dozza in espiazione di pena, per il reato di calunnia contro Ulisse Guichardaz, vicino di casa accusato della difesa dell’omicidio del piccolo Samuele, e frode processuale, subendo l’ulteriore condanna ad un anno e quattro mesi, confermata il 19 aprile 2011 dal Tribunale di Torino.

L’efferatezza con cui si è svolto il delitto di Cogne ha, fin da subito, richiamato la necessità di identificare e punire il colpevole. Tuttavia, l’aurea di mistero elevatasi attorno al misfatto tuttora non desiste, e alla base dell’omicidio sembra convergere un’univoca, insondabile ragione: la follia. Chiunque, infatti, si renda responsabile del massacro di un bambino, inerme, di soli tre anni non può essere altro che un folle, magari malato o viceversa spietato, ma comunque in preda ad un gesto di pura follia. Se ad essere la responsabile dell’uccisione del piccolo Samuele, come decretato, è stata la madre Annamaria, il baratro della schizofrenia si fa ancora più tristemente agghiacciante. Senza voler mettere in discussione l’operato degli organi giudicanti e tanto meno quello dei giudici supremi, si tenta di ripercorrere l’intera vicenda processuale, dagli albori al verdetto della Cassazione, per capire da un punto di vista criminologico come la responsabilità di una madre, in questo caso, oltre che condannata, vada integrata da un lavoro di supporto psicologico e di reintegrazione sociale. Questo, dal momento che la prima, e forse incomparabile vittima, di quel gesto estremo è proprio la stessa madre di Samuele.

Scarica l’approfondimento del caso in formato pdf.

 

Letizia Pieri

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