Caso Sallusti, certe cose non si scrivono, che poi i giudici ne soffrono

Renato Savoia 27/09/12
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Si, certo: il caso “Sallusti”.

Ma non solo.

Ieri infatti due sono state le notizie a mio modo di vedere inquietanti (le notizie, sia ben chiaro, non “la” sentenza): una è quella della vicenda Sallusti, e la conosciamo tutti, e l’altra è quella della vicenda, meno nota ma che a mio avviso si inserisce nello stesso filone, della polemica tra Vincenzo Ostuni e Gianfranco Carofiglio sfociata, o destinata a sfociare, a quanto è dato sapere, in una causa civile dopo che era stata paventata (e peraltro a oggi ancora potrebbe essere presentata) addirittura una querela penale.

Due premesse sono necessarie, a quello che sto per scrivere:

1) non ho alcuna simpatia per Alessandro Sallusti, non mi piace come scrive nè come argomenta, e trovo che l’articolo che ha fatto nascere il caso (peraltro non scritto da lui, che ne risponde in quanto direttore) sia scritto male, in maniera inutilmente truculenta;

2) non ho alcun dubbio che il procedimento penale a carico dello stesso sia esente da vizi ed errori, e pertanto trovo che non abbia senso indignarsi (massì, abuso anche io di questo termine) con la sentenza con la Cassazione o quant’altro.

Il punto è evidentemente un altro. E a ben guardare i punti sono anzi due.

Il primo, è l’insipienza (ma non è una novità) della classe politica tutta, a maggior ragione quella che oggi “frigna”. Chi è che modifica le leggi: io, il panettiere o il parlamento? Non serve aggiungere altro, sul punto.

Il secondo, e per me più importante, è relativo a me, a te, a noi, intesi come società: è giusto punire un’idea, una critica?

Siamo pieni di social network farciti di false citazioni voltairiane (ebbene sì, “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”, Voltaire non l’ha mai scritto, fatevene una ragione) sulla libertà d’espressione, ma poi siamo tutti pronti alla causa o querela se non ci piace quel che viene scritto.

Non siamo più capaci di discutere, anche animatamente?

Ha senso che tutto finisca in tribunale? A distanza di anni?

Se davvero (e io ne dubito) sentiamo leso l’onore e la dignità dall’affermazione di qualcheduno, non ha più forza rispondere sullo stesso mezzo (se è il giornale che sia il giornale, se è la televisione che sia la televisione e così via) nell’immediatezza?

Ma soprattutto: è giusto punire un’idea?

Facciamo un caso esasperato: se io esprimo l’augurio che Tizio muoia, ma non faccio evidentemente nulla perchè ciò accada, devo essere punito per il mio pensiero riprovevole?

Io dico di no.

Dico anche che deve essere possibile criticare, anche ferocememente.

Lasciamo la diffamazione all’ipotesi in cui si facciamo affermazioni veramente lesive della dignità della persona (e quindi per esempio non posso affermare impunemente che Tizio è un ladro, un usuraio o altro).

Ma il rischio che io vedo è quello di voler eliminare pian piano il diritto di critica.

A me non piace, e quindi lo dico.

E per questo chiedo a tutti di perdere cinque minuti per fare quello che ho fatto io (si veda il video): accendere la webcam e registrarsi mentre si legge la frase dell’articolo a firma Dreyfus apparso su Libero del 18/02/07 che, a quanto è dato sapere, ha scatenato la vicenda giudiziaria.

Non perchè la si condivida nel merito (lo dico e lo ripeto: io per primo non la condivido): anzi, proprio perchè non la si condivide.

Volete vivere voi in un paese dove bisogna aver paura di ciò che si scrive su un giornale o su un social network? Io no, e quindi mi muovo.

A voi la scelta:

a) non fare niente in maniera consapevole, perchè vi va bene la prospettiva appena delineata;

b) continuare in quella che io chiamo “indignazione da pollice” o “da social network”, e continuare a cliccare “mi piace” sulle foto di gatti pensando che “gli altri” debbano muoversi;

c) fare qualcosa, che certo non è molto ma è un qualcosa.

Due cose, in chiusura.

Relativamente al caso Sallusti ho trovato molto inelegante (e l’ho detto anche pubblicamente sui social network, facendone nascere peraltro uno scambio pubblico di tweet con l’interessato che invito a leggere) che abbia parlato del caso, con un lungo articolo pubblicato da una importante rivista, il collega di studio del difensore del magistrato.

Siccome ieri mi è stata fatta la domanda sempre tramite social network su come mi sarei comportato io se mi definissero pubblicamente “avvocatucolo da strapazzo”, la mia risposta è stata questa: citerei la Tatangelo, “quando la persona è niente, l’offesa è zero”.

Renato Savoia

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