Texas: si può giustiziare un disabile mentale?

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Il Texas è famoso per il rodeo, i cactus, il deserto e i giacimenti petroliferi; lo è anche, ma più tristemente, per il presidente con la W e la pena di morte, vero e proprio emblema dello stato federale. La statistica dice che, solo quest’anno, sono già 7 i giustiziati nel Texas mediante pena di morte e che, in linea di massima, è lo stato in cui viene applicata con maggior rigore e continuità.

A ben guardare la legislazione locale, perché negli U.S.A è così, ogni Stato ha la sua e vale entro i propri confini territoriali, sono numerosi, forse eccessivi, i crimini per cui si rischia di essere giustiziati; per omicidio di un agente di pubblica sicurezza o di un pompiere, per omicidio durante un rapimento, rapina, violenza sessuale aggravata, incendio doloso, un’ostruzione o una rappresaglia, un’evasione dal carcere, per omicidio al fine di remunerazione o per aver ucciso un impiegato di un istituto correzionale. Sono poi condannati al “miglio verde” tutti quei detenuti che commettono omicidio in carcere e stanno scontando pene per omicidio, rapimento aggravato, violenza sessuale aggravata, furto aggravato; chiaramente è contemplata l’esecuzione anche per chi uccide un minore di 6 anni.

E’ evidente che questa casistica presenta un’ambiguità nella discrezionalità degli eventi che possono condurre alla pena di morte. Forse che uccidere un bambino di 8 anni è meno grave rispetto ad uno di 6, appiccare un fuoco perché magari si è incoscienti e giovani è un errore da scontare con la propria vita? Sono solo due considerazioni, banali ed immediate, ma con più attenzione se ne potrebbero desumere tante altre, e dire che questo metodo, nato al fine di scoraggiare il crimine, non ha mai sortito gli effetti sperati perché il Texas è il quarto stato, sui 51 americani, col più alto tasso di omicidi; dunque un fallimento questa sistematica applicazione della pena.

Un fallimento ancor più lampante se i soggetti su cui viene eseguita sono addirittura invalidi mentalmente, non raggiungono cioè, secondo le perizie psichiatriche disposte, un Q.I. minimo (70) per essere ritenuti capaci di intendere e di volere. E’ stato il caso di Marvin Wilson, 54enne afro americano che ad agosto ha perso la vita nell’esecuzione che gli era stata predisposta per aver ucciso nel 1992 Jerry Williams, un informatore della polizia.

La vicenda non è del tutto chiara,   Wilson aveva un complice, tale Terry Lewis, che però ha potuto contare sulla testimonianza della moglie che ha incastrato Wilson; tuttavia prove a carico di questa tesi non sono mai emerse, non solo ma l’uomo si è sempre dichiarato innocente ma soprattutto non in grado mentalmente di compiere un atto del genere, visto l’esito della perizia psichiatrica (soli 61 punti di Q.I.). Dunque un caso controverso, ricco di zone d’ombra dove è facile scorgere cavilli a cui aggrapparsi e dubbi nei quali cadere, eppure, l’implacabilità della legge texana non ha fatto sconti, e così un altro uomo se ne è andato gettato a croce sul lettino dell’iniezione letale.

Non è il primo disabile che viene “immolato”, era già successo, a metà luglio, a Yokamon Hearn, 34enne affetto da alcolismo fetale. La questione non è solamente etica ma, soprattutto, giuridica in quanto nel 2002 la Corte Suprema americana ha deciso di vietare l’esecuzione di condannati con disabilità mentali, quindi sarebbero incostituzionali queste due esecuzioni, anche se c’è una postilla che di fatto rende vano questo nobile provvedimento: i giudici americani, infatti, hanno stabilito che siano i singoli Stati a decidere che cosa costituisca “disabilità”.

Un criterio decisamente troppo elastico e soggettivo per pensare che si possa applicare correttamente ad una tematica così delicata come l’esecuzione capitale, ma questi sono gli U.S.A., il Paese del mito della frontiera e delle grandi contraddizioni.

Alessandro Camillini

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