Bocciata la legge anti-ribaltoni. La politica recidiva a difesa del fortino

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I “no” sono stati 233, i “sì” solo 45. Gli astenuti? 3. Plebiscito quasi unanime per il voto a un emendamento, quello presentato dal senatore Roberto Della Seta del Partito democratico, che prevedeva un “aggiornamento” dell’articolo 67 della Costituzione, quello, per intenderci, che sancisce l’assenza di vincolo di mandato per i parlamentari. In sostanza, l’intento del senatore democratico era quello di vietare ex lege i cosiddetti “ribaltoni”, obbligando i transfughi di un gruppo a entrare nei ranghi del Gruppo Misto, senza spingersi oltre.

L’emendamento, presentato da Della Seta, Ferrante, De Sena, De Luca Vincenzo, Di Giovan Paolo, Garavaglia Mariapia, Maritati, Ranucci e Scanu, mirava a sostituire l’articolo 67 della Costituzione, in materia di divieto di mandato imperativo, con il seguente: «Art. 67. – I membri del Parlamento rappresentano la nazione senza vincolo di mandato. Decade dal mandato il parlamentare che s’iscrive ad un gruppo parlamentare, diverso dal misto, che non rappresenti il partito per cui è stato eletto».

Ma niente da fare: gli eletti potranno tranquillamente continuare a cambiare divisa, passando da uno schieramento all’altro, magari fondare un gruppo in proprio e, chissà, chiedere il finanziamento pubblico per un organo di stampa legato alla neonata forza politica. Eppure, a ben vedere, l’intento del “povero” Della Seta era molto chiaro: evitare il ripetersi del fenomeno Scilipoti, con cambi improvvisi di schieramento e tutte quelle capriole, carpiati e avvitamenti ai quali purtroppo i nostri rappresentanti ci hanno tristemente abituato.

L’articolo 67 della Costituzione, molto semplicemente, recita che “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” e venne introdotto proprio per non imbrigliare l’operato degli eletti entro i rigidi schemi di partito, lasciandoli liberi di seguire la propria coscienza, in un’epoca dove i partiti avevano una pervasività ideologica e morale oggi quasi del tutto scomparsa.

Ciò che i padri costituenti avevano sancito, dunque, era una garanzia per non vincolare i parlamentari alle segreterie o ai comitati, dopo che la dittatura fascista aveva ridotto l’aula a un “bivacco di manipoli“: uno scrupolo che, visti i precedenti, andava messo nero su bianco per assicurare il corretto funzionamento del sistema democratico. Le prerogative della libertà di coscienza lasciate ai rappresentanti erano dunque a piena tutela che Camera e Senato non si tramutassero in un puro agglomerato di numeri, ma a un insieme di teste pensanti, presenti perché giudicate affidabili dal popolo sovrano e libere di opporsi, anche ai propri vicini di banco, quando ritenuto necessario.

E qui, dunque, nasce il cortocircuito di oggi: se l’articolo 67 della Costituzione era il pilastro della libera dialettica democratica, che dalle piazze si sublimava all’interno della vita istituzionale, oggi è proprio il principio ispiratore di quell’articolo a venire calpestato da questa china irrimediabile di una politica che non perde occasione di mostrare i suoi lati oscuri.

Prima di tutto, perché nel momento in cui le ideologie del Novecento sono venute meno e i partiti si sono riorganizzati su basi affaristico-economiche, anche in conseguenza della globalizzazione dei mercati avviata negli anni ’90, le macchine politiche hanno guadagnato consenso difendendo gruppi di interesse o interessi particolaristici, che favorivano la scalata o la conservazione del potere .

In conseguenza, ciò accade, da qualche anno, sullo sfondo di una legge elettorale ribattezzata “porcata” dai suoi stessi autori, una norma dovrebbe essere la pietra angolare della democrazia di un Paese, che non consente al popolo di scegliere i suoi eletti, ma solo di apporre una croce su un simbolodemandando pieni poteri ai direttivi di partito: un sistema che neanche agli albori dell’Unità d’Italia, quando l’analfabetismo era una piaga dilagante che affliggeva oltre metà della popolazione, avrebbe espresso la legittimità di una classe politica agli occhi dei cittadini.

Va da sé che i partiti, mentre corrono di fronte ai microfoni a litigare su tutto, fanno costantemente quadrato quando si tratta di difendere le scappatoie per non rendere conto del proprio operato. In un contesto come quello attuale, fare spallucce di fronte a un tema come quello sollevato dal senatore Della Seta significa semplicemente non avere il polso del Paese, dove un’astensionismo ormai a livelli da “primo partito” è il sintomo più evidente di un malcontento generale in crescita costante.

Per riannodare i fili tra cittadinanza e politica, forse abolire l’articolo 67 della Costituzione sarebbe un po’ troppo. I nostri rappresentanti, anziché fare le barricate a difesa del trasformismo, dovrebbero capire che non c’è solo la Bce da accontentare, ma anche quel concetto indefinito di “gente” che, poi, in estrema sintesi, non è altro che una massa di contribuenti che consente a loro (ma non solo) di condurre una vita agiata e agli speculatori dei mercati di sferrare nuovi attacchi allo Spread.

Allora, per recuperare il rapporto di reciproca fiducia tra classe dirigente e società, meglio sia partire proprio dalla riscrittura della legge elettorale e favorendo, insieme, alcune norme in favore della trasparenza economica, politica e amministrativa senza trincerarsi dietro alle belle parole, col solo scopo di difendere i soliti privilegi di borgata o dare vita a versioni moderne del trasformismo parlamentare. Il popolo, in fondo, non chiede abolizione del vincolo di mandato, ma solo un concentrato di onestà e responsabilità ai suoi malandati, e un po’ ingenui, rappresentanti.

Francesco Maltoni

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